“Cercavi giustizia, ma trovasti la legge”

Intervento del vescovo Mimmo all'incontro con Agnese Moro e Adriana Faranda “Attraversare i conflitti: un’esperienza di giustizia riparativa” – Sant’Agata de’ Goti, 16 ottobre 2018

“Cercavi giustizia ma trovasti la legge”: è il verso di una canzone di De Gregori che per me racchiude quello che vorrei dirvi e anche augurarvi stasera. La storia umana, le relazioni, le persone che siamo state, che siamo diventate, le radici di ciascuno, non sono realtà che possiamo liquidare ma sono la vera complessità che dovremmo imparare a raccontarci. Il racconto è qualcosa che manca in questa nostra epoca. Nel raccontarci ci conosciamo e ci avviciniamo.

Per questo motivo ringrazio veramente di cuore Agnese Moro, Adriana Faranda, Padre Guido Bertagna, per le loro parole, per il dialogo tra loro e con noi, per questa ricerca viva del vero bene nella storia, nella vita di chi si ritrova a essere vittima, nella vita di chi ha causato la condizione della vittima, nella vita di questa società, nell’orizzonte più ampio della comunità umana di cui ci sentiamo insieme parte.

Alcuni spunti di riflessione che vorrei condividere con voi.

  • Ho voluto questo incontro stasera per dare risalto alla commissione “giustizia e pace”, per ripartire, anche a livello regionale, da questi temi; ma anche perché l’esperienza di questi miei primi anni da vescovo in questa diocesi, in questa nostra terra, mi ha portato a toccare con mano le piaghe che la addolorano. La nostra terra è ferita da mentalità che conosciamo bene ma che stentiamo a denunciare, a chiamare per nome.

Come chiesa non possiamo tacere dinanzi ai tanti volti sfigurati dal dolore e dalla sofferenza. Di fronte al male e all’ingiustizia, da qualunque parte provengono, non possiamo essere neutrali, ma pur coscienti dei nostri limiti e delle nostre fragilità, siamo chiamati ad alzare la voce. La violenza è sempre menzogna che mortifica l’esperienza umana contro la verità della nostra fede, la verità della nostra umanità.

Ogni volta che il sangue innocente viene versato, siamo chiamati a testimoniare la profezia della non violenza, attraverso segni contrari alle logiche del nemico, dello scarto e dell’indifferenza. E, se vogliamo chiamarli per nome, segni alternativi al sistema Caino, al sistema Erode e al sistema Pilato.

Come non pensare, in questo momento, ad es., alle vittime di violenze, di soprusi, dell’usura, dell’estorsione e delle intimidazioni della criminalità organizzata. Come non pensare alle vittime di ingiustizie sociali e di sistemi clientelari. Come non pensare alle famiglie di chi ha pagato con la vita scelte scellerate e disumane a causa degli sversamenti illegali di rifiuti, e a quanti soffrono per malattie dovute a questo scempio, a questo crimine.

Come non pensare anche alle ingiustizie nel mondo del lavoro, ai precari, alla mancanza del lavoro, ai disoccupati, alle persone sfruttate, alle famiglie delle vittime delle mancate condizioni di sicurezza: non c’è giustizia senza lavoro e nemmeno lavoro senza giustizia. La parola legalità cammina a pari passo con un’altra parola: responsabilità.

Come non pensare alla piaga del gioco d’azzardo e alle altre dipendenze.

Come non pensare alla bellezza di queste terre ma abbandonate e a volte deturpate.

Non possiamo mai voltarci dall’altra parte e far finta di non sapere, di non sentire, di non vedere. Non possiamo rimanere in silenzio e non ricordare a tutti che gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio.

Queste piaghe mi spingono e ci spingono ad amarla di più. “Si prese cura” è il verbo del Samaritano, un uomo, un pagano, che nel vangelo di Luca si fa prossimo di un moribondo, di un altro uomo piegato e lasciato ai margini della strada. Il Samaritano è un uomo che vive veramente la legge, un uomo che vive la volontà di Dio!

“Si prese cura” è il verbo che ci accompagnerà nel cammino di questo anno pastorale, perché possiamo ripartire da una più reale condivisione della vita. Lo speriamo e ce lo auguriamo. La nostra terra ha bisogno di testimoni di speranza!

 

  • Sappiamo tutti che non basta semplicemente appellarci alla legalità se la sganciamo dal senso e dalla ricerca della giustizia, del bene comune.

È possibile essere rispettosi delle leggi ma avere gli occhi rivolti solo verso se stessi, la propria immagine, il proprio interesse, il bene per sé.

Pensiamo a che cosa è diventato, nell’ambito della fede, il principio “ama il prossimo tuo come te stesso”! Lo abbiamo tradotto con: per amare il prossimo devi prima amare te stesso!

La ricerca di giustizia invece è esercizio etico continuo, esercizio di coscienza, e, per me prete, traduce un attributo di Dio. Se non si riscopre il fondamento etico della giustizia anche parlare di diritti sarà per salvare “i propri diritti” a prescindere dalla dignità dell’altro…

Ci sono state leggi nella storia che oggi consideriamo profondamente ingiuste: pensiamo al delitto d’onore, tanto per citarne una, ma anche, nel nostro presente, al reato di clandestinità.

Molte leggi non riescono a difendere i deboli, i diseredati, gli ultimi. Non è giustizia dividere in parti uguali tra disuguali, come non è giustizia emarginare il diverso, lo straniero, in nome della sicurezza. Abbiamo bisogno di leggi capaci di restituire vita e dignità alle persone: non sia dato per carità quello che è dovuto per giustizia!

In tutti i tribunali italiani è scritto quale monito e rassicurazione agli uomini che la legge è uguale per tutti: ma nel mio cuore questa frase non è scritta. Il settimo comandamento dice “non rubare”, ma che differenza quando a rubare sono i poveri per mangiare o i ricchi per abusare! Dobbiamo chiederci se legalità e moralità camminino in modo congiunto o stiano progressivamente divaricandosi.

 

  • C’è una spiritualità della pace che dovremmo recuperare e che ha come radici proprio la ricerca della giustizia e del bene comune: la personale ricerca di giustizia sia, in quanto dipende da noi, promozione della libera responsabilità dell’altro (tradotto nella regola d’oro “fa’ all’altro quello che l’altro vorresti facesse a te”). Sii tu per primo a cercare il bene possibile, a cercare di ascoltare e riconoscere il reale bisogno dell’altro, sii tu per primo a raccogliere la responsabilità verso l’altro come dono più prezioso nella tua vita, perché anche l’altro sia fattore attivo di cambiamento.

L’istanza di giustizia comporta una esigenza che fatichiamo a sentire, che fatichiamo a far crescere e maturare: la conoscenza. Sono responsabile di ciò che conosco. Si tratta di avere consapevolezza del valore della legge, del senso della giustizia, dei processi storici, dell’importanza e della urgenza della formazione della coscienza morale.

Dobbiamo inoltre ripartire, qui e ora, dalla comprensione dei valori in gioco, perché sono convinto che, sebbene ci sembra di condividerli, in realtà a volte è solo una pia illusione.

 

Concludendo…

  • Ogni giorno, quando mi incontro e mi scontro con le storie di vita dei tanti “esclusi”, mi sento dilaniato dalla consapevolezza che abitiamo in una casa a testa in giù. E le carceri, le nostre carceri, sono l’espressione più struggente di questo capovolgimento, in cui la giustizia troppe volte diventa vendetta. Nonostante, dunque, ci sia una carta costituzionale che tende ad individuare nella pena uno strumento educativo, la sanzione rappresenta ancora un castigo. L’obiettivo è il recupero, non la pena in sé.

Chi sbaglia resta un uomo! È difficile per noi ammettere che chi si macchia di certe colpe gravi sia in tutto e per tutto nostro simile. Siamo veramente capaci di pensare il colpevole come persona da rispettare, salvare, promuovere ed educare? Siamo capaci di testimoniare, in quanto dipende da noi e dai nostri ordinamenti, dalle nostre politiche prostrate a un’economia senza uomo e senza Dio, che il valore della legalità ha il suo fondamento nella vita fraterna? Ce lo dobbiamo chiedere.

Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati; impedire che essa “appiattisca” chi ha sbagliato nel suo errore e gli neghi la possibilità del cambiamento. Fu il cardinale C.M. Martini a dire che non ci si può limitare a pensare a pene alternative, ma è necessario immaginare alternative alle pene. Egli ha affermato: “Più volte li ho sentiti [i detenuti] esprimere il desiderio non di scontare una pena qualunque pagando in maniera astratta il loro debito verso una società di cui conoscono dal di dentro le malefatte e le ingiustizie, ma di ripagare il male compiuto verso le persone o gruppi da loro lesi, con azioni positive di servizio gratuito in favore di ideali simili a quelli che loro hanno violato”.

La pena dovrebbe essere reale possibilità di riscatto sociale per recuperare il senso di umanità perduto e offeso. Tante donne e tanti uomini sono riusciti a ripercorrere la propria vita al contrario, riscattandosi, imparando non solo a chiedere perdono ma anche a perdonarsi. Io sono uno dei tanti testimoni delle loro fatiche, della loro ricerca di senso, del loro mettersi in gioco e, oggi, del loro spendersi per gli altri. Forse è proprio questo il senso del riscatto, riuscire a rompere il ghiaccio che imprigiona il proprio IO, avvicinandosi alla fonte del calore che solo un NOI può emanare. Le lacrime svelano l’umanità, il dolore ridona fattezze umane a chi appare solo una bestia. Ma ci dev’essere accanto qualcuno che raccolga quelle lacrime e condivida quel dolore. Questo significa che siamo chiamati a lavorare anche nelle storie più scomode e più difficili: “Ogni uomo [scrive Padre Turoldo] fa parte della storia: non c’è un bene di cui ognuno non sia partecipe, come non c’è un male di cui ognuno non sia in qualche modo direttamente o indirettamente responsabile”.

Il male va sempre segnalato e sanzionato, non bisogna tacere o voltarsi dall’altra parte, ma bisogna pensare che la giustizia riguarda tutti, non solo lo Stato, e ci riguarda nel senso che dobbiamo continuamente ricostruire le basi morali dentro di noi e nel rapporto con gli altri.

Chi è stato offeso negli affetti, nei beni, nella vita stessa, riceve dalla detenzione del reo un risarcimento reale? Nessuna pena potrà ripagare una mamma a cui è stato ammazzato il figlio. Ecco perché avviare un processo di riparazione e di perdono è la strada complicata, irta di pericoli, ma che forse, rimargina, rende meno dolenti, ferite incancellabili. So, io per primo, che tutto questo è difficile da vivere, da realizzare, ma è anche questa la speranza.

Voglio lasciarvi con un vecchio racconto che narra di un ricco cinese che passa su un viottolo e si ferma ammirato davanti ad una splendida peonia rosa e soddisfatto, in pace, dice “Che bella!” Dietro di lui cammina un affamato che, passando, neanche la vede. Forse, giustizia, sarà quando tutti riusciremo ad ammirare quel fiore! Questo è il mio augurio.

+ don Mimmo, vescovo

foto: Vincenzo De Rosa