Intervento alla presentazione della Lettera Pastorale 2017-2020 “Coraggio! Alzati, ti chiama!” – 8 luglio 2017

08-07-2017

Cosa serve per andare incontro al futuro? Un bagaglio leggero, morbido, flessibile, ma soprattutto occhi nuovi e cuore aperto. “Perché non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina.” (Goethe)
Ci sono due modi per leggere il tempo: dal passato verso il presente, oppure dal futuro verso il presente. Il tempo vitale parte dal futuro. Il presente non è che una risposta agli appelli che ci vengono dal futuro.
La Chiesa è nata da un soffio. È nata il giorno in cui uomini paralizzati dalla paura, chiusi in una stanza per difendersi dal mondo esterno, sono stati investiti da un vento gagliardo. E si è manifestata, fatta conoscere, provocando stupore, quando quegli stessi uomini si sono ritrovati scaraventati dal vento fuori di casa e si sono messi a parlare … facendosi capire da tutti. La vocazione della Chiesa non è la staticità, la difesa di sé stessa, l’arroccamento nelle proprie strutture, ma un dinamismo di irradiazione, un mescolarsi nella diversità, un comunicare con tutti.
Essere mandati significa non rimanere al proprio posto. A Pentecoste si celebra la nascita di una Chiesa che non sta al proprio posto, non mantiene le posizioni, impara subito a camminare.
Una Chiesa statica, che si aggira nelle proprie stanze, badando che tutto sia in ordine, che si limita a comunicare con l’esterno attraverso proclami solenni, è la Chiesa prima di Pentecoste, cioè una Chiesa che non è mai esistita.
Una Chiesa nata dal vento, non si mette al riparo, non si sottrae al soffio, non lo mortifica. Gli uomini della Pentecoste, figli del vento, non si sono precipitati a rinforzare porte e finestre, ma le hanno spalancate. La Chiesa della Pentecoste non ha ottenuto dallo Spirito il rimedio contro la paura. Ha accolto il coraggio come dono, come dovere. E la paura è stata dimenticata. E la Chiesa scaturita dal vento, riceve in consegna il fuoco. Gesù stesso è venuto a recare il fuoco.
Ora lo stesso fuoco viene affidato agli apostoli: lo Spirito, più che riempire il cervello di quegli uomini, gli incendia il cuore. Ed è un fuoco che purifica, libera dalle scorie, brucia alle radici l’orgoglio e la vanità, incenerisce fronzoli ed orpelli. Ma soprattutto attizza una passione incontenibile. Geremia ne sapeva qualcosa.
Nella Pentecoste non vengono licenziati degli scolari diligenti che hanno imparato una lezione e vanno a trasmetterla in tono professorale, con uno stile burocratico-impiegatizio, in un atteggiamento distaccato, impersonale, anonimo, neutro, impassibile.
Gli uomini della Pentecoste sono degli appassionati, non degli esecutori di ordini, non degli incaricati di trasmettere notificazioni dall’alto. E sono pericolosi, incontrollabili, imprevedibili, perché bruciati da una passione, e non mossi da altri interessi. Sono degli innamorati! Non funzionari, severi esattori dei tributi dovuti a Dio, o impresari della salvezza, professionisti della legge, funzionari delle regole e analfabeti del cuore.
La vita è passione, fuoco. E la Chiesa rimane fedele alla Pentecoste nella misura in cui non si accontenta del funzionamento, della disciplina, dell’amministrazione della cenere, ma non ha paura di scottarsi dita e cuore maneggiando carboni ardenti. Perciò anche una Chiesa che ha qualcosa da dire e riesce, soprattutto, a farsi capire.
Vento, fuoco, dono delle lingue. Conoscere e parlare la lingua dell’altro non significa ancora saper parlare all’altro. Riuscire a comunicare con l’altro implica la capacità di entrare in sintonia con lui, captarne le esigenze, interpretare le attese, risvegliare un desiderio profondo, suscitare una nostalgia.
Parlare all’altro vuol dire incontrarlo nella verità del suo essere unico, nella concretezza della sua situazione. È più facile conoscere le lingue che conoscere le persone. È più facile imparare il messaggio, che scoprire il modo di trasmetterlo. È più facile imporlo, che favorirne l’accoglienza. Un conto è prendere la parola, un conto è farsi ascoltare. Non basta avere qualcosa da dire. Occorre farsi capire.
Il dono delle lingue implica soprattutto la capacità, ancora più difficile, dell’ascoltare. Non basta parlare nella lingua dell’altro, occorre saper ascoltare l’altro che parla la propria lingua. E qui veniamo posti difronte alla scoperta della diversità. A Pentecoste nasce una Chiesa che non esita a confrontarsi con la diversità. È la diversità che impone alla Chiesa di indossare la sua vera dimensione, che è quella dell’universalismo, e che si esprime concretamente nel pluralismo (nell’unità della fede).
Un vero spirito universale considera la diversità come una ricchezza, come manifestazione dello spirito multiforme. Allora oltre a riempire ciò che è vuoto, lo Spirito deve liberare dagli ingombri. C’è sempre il rischio che la nostra pienezza sia quella della presunzione. Chi va verso gli altri gonfio di sé, appesantito di supponenza. E chi va con passo leggero, perché ha accettato prima di tutto di lasciarsi svuotare.
Si “esce” perché sospinti da Dio e dal suo Spirito, ed inviati da Cristo. L’iniziativa di “uscire” non è nostra ma di Dio, perché siamo chiamati ad uscire e a camminare secondo la sua Parola, i suoi criteri, i suoi dinamismi, e non i nostri. Nell’orizzonte della misericordia. È l’orizzonte di senso che qualifica lo “stile” della Chiesa in missione.
È una vera trasformazione ecclesiale, in chiave di missione. Un cambiamento di mentalità: dal ricevere all’uscire, dall’aspettare che vengano all’andare a cercarli. Uscire per incontrare Dio che abita nella città e nei poveri. Uscire per incontrarsi, per ascoltare, per benedire, per camminare con la gente. E facilitare l’incontro con il Signore.
È la Chiesa del grembiule, sognata da don Tonino Bello. Una Chiesa libera, povera e serva. «Le nostre Chiese, purtroppo, sono così. Riscoprono la Parola […]. Celebrano liturgie splendide […]. Quando però si tratta di rimboccarsi le maniche e di cingersi le vesti, c’è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota e un catino che non si trova». Da questa intuizione ha preso corpo il volto evangelico della «Chiesa del grembiule», che don Tonino ha sognato. Anzitutto, la «Chiesa del grembiule» è una Chiesa libera.
La «Chiesa del grembiule» è il «popolo di Dio in cammino attraverso la storia». E’ una Chiesa finalmente libera, che esce dal chiuso dei propri privilegi e delle mura del tempio per farsi presente e vicina a ogni uomo, là dove si vive e si lavora, là dove si costruisce la città, si soffre e si muore. E’ una comunità aperta, alla quale, in vario modo appartengono o sono ordinati sia i cattolici, sia i cristiani delle altre confessioni, sia tutti gli uomini che Dio vuole indistintamente salvi. Questa è la «Chiesa del grembiule», estroversa, non autoreferenziale e ripiegata su sé stessa, non più chiusa nei panni ristretti del «regime di cristianità»: «Si deve evitare la malattia spirituale della Chiesa autoreferenziale – ha detto papa Francesco: quando lo diventa, la Chiesa si ammala. E’ vero che uscendo per strada, come accade a ogni uomo e a ogni donna, possono capitare degli incidenti. Però se la Chiesa rimane chiusa in sé stessa, autoreferenziale, invecchia. E tra una Chiesa accidentata che esce per strada e una Chiesa ammalata di autoreferenzialità, non ho dubbi nel preferire la prima».
Ecco perché la «Chiesa del grembiule» deve essere più libera anche nella sua vita interna. Il Concilio è stato molto chiaro su questo punto: l’ecclesiologia di comunione taglia alla radice ogni forma di «clericalismo», cosicché nella Chiesa non vi sono cristiani di serie A (il clero) e di serie B (i laici), ma «comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la vocazione alla perfezione. I fedeli laici non sono minorenni, né «preti mancati» o delegati del clero, ma ricevono direttamente da Cristo, nel Battesimo e nella confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, in quanto anch’essi – nella loro misura – partecipano dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo.
Il secondo tratto fondamentale della «Chiesa del grembiule» è la povertà.
La Chiesa del grembiule è povera e amante dei poveri. Non è una scelta demagogica o ideologica, ma evangelica, scritta nel cuore stesso del Vangelo. Papa Francesco ha raccontato nell’udienza ai giornalisti che, durante lo spoglio dei voti nella Cappella Sistina, quando la sua elezione a vescovo di Roma ormai era certa, il card. Hummes, che gli sedeva accanto, gli suggerì: «Ricordati dei poveri!». Fu allora – disse il nuovo Papa – che decisi di chiamarmi Francesco. Il racconto di Papa Francesco richiama un altro racconto, quello di san Paolo. Quando l’Apostolo si recò con Barnaba a Gerusalemme, per avere conferma della sua missione tra i gentili, Giacomo, Cefa e Giovanni, le colonne della Chiesa, diedero loro la mano destra in segno di comunione – narra san Paolo – «soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio, preoccupato di fare» (Gal 2, 10). «Ricordati dei poveri»: questo è il Vangelo! La povertà, infatti, manifesta la gratuità della salvezza di Dio, il quale, da ricco che era, si è fatto povero perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor 8,9).
«I poveri sono il luogo teologico dove Dio si manifesta e il roveto ardente e inconsumabile (cfr At 7,30ss; Es 3, 1s) da cui egli ci parla».
Una Chiesa serva.
Infine, la «Chiesa del grembiule» è una Chiesa serva: «La Chiesa non deve mai collocarsi come un assoluto. L’assoluto è il suo Signore Gesù Cristo. La Chiesa è serva umile: quanto più, starei per dire, si toglie di mezzo, meglio è: per far risplendere Lui, Gesù Cristo, lo sposo che arriva. Un giorno lei, la Chiesa, sarà introdotta alle nozze con l’Agnello: e solo allora ci sarà gloria anche per essa. Prima no. Ogni anticipazione della gloria sarebbe appropriazione indebita».
Sogno e amo la Chiesa che sperimenta l’umanissimo travaglio della perplessità e condivide coi comuni mortali la più lancinante delle sofferenze, l’insicurezza (e oggi, i sociologi che vanno per la maggiore parlano della nostra come dell’epoca dell’incertezza!): una Chiesa sicura solo del suo Signore, e per il resto debole, fragile, bisognosa di tutto.
Una Chiesa che non medita rivincite ma che accetta di mangiare il pane amaro del mondo, condividendone le vicende in chiaroscuro, e che – pur cosciente di essere il sale della terra – non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea col Vangelo. Che non si limita a sperare, ma organizza la speranza, e ne fa il segno distintivo della sua presenza quaggiù.
Dobbiamo servire il mondo, ma da risorti. Di servizio se ne compie, nella Chiesa, e tanto anche. A volte fino all’esaurimento. Ci schieriamo con i poveri, facciamo mille sacrifici, aiutiamo la gente… ma non con l’anima dei risorti, bensì con l’anima degli stipendiati. E non sempre col nostro servizio annunciamo Cristo speranza del mondo. Annunciamo più noi stessi e la nostra bravura, che Lui! Ma non siamo i viandanti entusiasti che insieme con gli altri dirigono i propri passi verso Cristo risorto.
Coraggio, chiesa di Cerreto Sannita- Telese- Sant’agata de Goti …vai alla ricerca degli ultimi nel tuo territorio.
Chiesa samaritana, lenisci le piaghe con l’olio della tenerezza, curale con l’aceto della profezia. Urla. Rivendica i diritti dei poveri. Mettiti al loro fianco con gratuità. Presta ad essi la tua voce. Non aver paura…
Dobbiamo rimboccarci le maniche e metterci con umiltà e discrezione accanto a tanti giovani, ai tanti indifferenti senza Dio, senza codici, senza lavoro, senza progetti, senza ideali. È questo il nuovo grembo in cui la parola attende di farsi carne. E farci compagni di viaggio senza arroganza, ma rimotivando la vita. Non possiamo giocare di rimessa, affidandoci a qualche contropiede.
Interroghiamoci su certe scelte pastorali, su certi riti, su certe processioni, su certe operazioni che privilegiano più il salotto che la strada, più le pantofole che gli scarponi da viaggio, più la vestaglia da camera che il bastone del pellegrino. Il coraggio di lavorare insieme. Camminare insieme. Osare insieme! Nel nome del Vangelo!
Io sono contento di tanti laici impegnati nelle nostre parrocchie. Ma ancora non giocano la partita come titolari, hanno l’aria tipica delle riserve, anche quando accennano a scaldarsi a bordocampo. Allungano la fila della panchina: allora una più convinta riscoperta del concetto di laicità intesa come vocazione è essenziale. Per tutti!
Ecco, questa Chiesa si fida di voi, si affida a voi. Dalla forza dei sogni alla concretezza dei segni. Scegliete sempre con libertà, credete con responsabilità.
Beneditemi e benedite con la vostra presenza questa Chiesa.

+ don Mimmo, vescovo