Dal sangue versato al canto di speranza – Omelia per i Riti Settennali, 27 agosto 2017

27-08-2017

La celebrazione di Santa Maria Assunta in cielo non ci parla semplicemente di una donna, per quanto grande, ma parla di tutta la Chiesa. Perché le verità che riguardano Maria sono l’alfabeto della nostra vita.
Maria fu assunta in cielo anima e corpo. Così proclama il dogma e potremmo pensare ad esso come ad un concentrato di riflessioni più o meno difficili, come ad un fatto mentale cui aderire con il pensiero. Ma il dogma non è questo. E’, invece, un’indicazione per la vita. Noi celebriamo l’assunzione di Maria al cielo, perché in essa intravediamo l’assunzione futura di ognuno di noi in anima e corpo.
Nel suo dogma è anticipata la nostra vocazione, perché Maria è la sorella che è andata avanti, la prima incamminata nel grande viaggio di ritorno a Dio in anima e corpo e cuore e spirito e ricordi e gioia.
Con il suo corpo in cielo, significa che ogni giornata di Maria, vissuta nel silenzio, ogni ora trascorsa nella pazienza e nell’umiltà, tutte le gioie e le sofferenze, le notti oscure della sua vita e la speranza indomita, tutto è entrato nell’eternità.
Oggi la Chiesa intona il canto del valore del corpo. E se una vita vale poco, niente vale quanto una vita.
“Ora lei viene dal re e la seguono amiche vergini in danze di gioia, verso la reggia avanzano insieme” …
Questa è la prima immagine che la parola di Dio ci offre dell’assunzione: un corteo. Così è disegnata la storia dell’umanità. Maria è andata avanti e noi, come amici in danze di gioia, la seguiamo verso la casa del re; la tua bellezza incanta il re, sedotto dalla sua e, in qualche modo, dalla nostra bellezza. Il corteo, il nostro, va verso un Dio che si incanta ai suoi figli.
Come Maria, noi siamo umanità incamminata, umanità ferita, certo, caduta, eppure incamminata…umanità traditrice, debole, eppure incamminata, che non si arrende e avanza.
Allora la vita di Maria è scuola di cristianesimo, scuola di speranza, come dice l’Apocalisse: vidi una donna vestita di sole, era incinta e gridava per le doglie del parto.
E’ la seconda immagine, bellissima e forte, che la parola di Dio ci offre. Immagine che si riferisce allo stesso tempo all’umanità intera, alla Chiesa tutta, a Maria, e anche a me, piccolo cuore ancora vestito d’ombra.
Ed è immagine di ciò che siamo chiamati ad essere, icona del nostro futuro. Uomini di luce, vestiti di sole, uomini e donne portatori di vita, forti nella lotta contro il male. La vita cristiana è anche conflitto tra egoismo e dono, tra vendetta e perdono, tra violenza e mitezza. Ma la nostra bellezza consiste anche nella forza indomita in ogni lotta contro il male. Questa è l’immagine del nostro futuro: creature luminose, generanti e mai arrese.
La pagina del Vangelo è l’unica che ha per protagoniste due donne, entrambe incinte in modo impossibile, santuari dove la vita è in viaggio. Il Vangelo racconta il recarsi in fretta di Maria ai monti di Giudea da Elisabetta. In questo correre è anticipato il suo alzarsi verso il cielo. E’ il movimento dell’amare, del prendersi cura, mettersi in viaggio…incontrare il volto dell’altro…ma anche capacità di chinarsi, di affrontare le montagne, di accorciare le distanze, di entrare nella casa dell’altro come ospite inatteso e benedetto…che porta la salvezza del Dio con noi.
E questo vale per ciascuno di noi. La nostra assunzione futura è legata a quanto l’amore ci farà alzare dalle nostre vite spente per andare verso gli altri.
La prima parola dell’incontro è una benedizione: benedetta tu tra le donne. E la benedizione di Elisabetta a Maria coinvolge tutte le donne: tu sei benedetta tra tutte le donne, che sono, tutte, benedette. Vorrei anche io passare nel mondo benedicendo come Elisabetta, magnificando come Maria. Benedetto il frutto del tuo ventre. Fra tutti i nati di donna che sono per il mondo benedizione di Dio. Perché Dio ci benedice con la vita e ogni nascita è profezia e benedizione di Dio.
La prima parola che dovrebbe sempre aprire la nostra bocca, in ogni incontro tra umani, a chi condivide la strada, la casa, a chi ci è vicino, dovrebbe essere una benedizione: che tu sia benedetto.
E così, nella preghiera, la prima parola dovrebbe essere quella di Maria: non il domandare, il chiedere, il supplicare, ma semplicemente lodare: verso Dio il primato della lode. Verso i fratelli, il primato della benedizione.
Due donne nell’attesa di essere madri ci insegnano il cammino che ci porta gli uni verso gli altri, e insieme verso Dio, nostra lenta assunzione. Con Elisabetta imparando a benedire, con Maria imparando a vedere e lodare.

I passi di questi giorni
Riconoscere e insieme chiedere perdono per la nostra riluttanza a camminare, è segno di un cambiamento che inizia prima di tutto nel nostro cuore. Le ferite possono e devono diventare, con la nostra risposta, la nostra presenza, segni di speranza. Ma occorre rimboccarsi le maniche prima di tutto per riconoscere quali sono le piaghe che segnano la nostra terra, la vita di tanti. L’inquietudine diventa esigenza di organizzare la speranza, il cammino della vera pace.
I passi di questi giorni, che segnano le strade, i rioni, tutti luoghi sacri, mi piace immaginarli come ricerca continua di Dio, del suo volto misericordioso di Padre. La preghiera degli umili: Signore, abbi pietà di me, abbi pietà di noi, peccatori! È la preghiera di chi prega Dio a distanza, perché si sente tanto diverso da lui… è la preghiera dell’umile che arriva a Dio, di chi riconosce che Dio è Signore.
È la preghiera che porta con sé, nascosta in un angolo, la speranza, per sé e per il mondo intero. Ma l’umile non lo sa, non vede la luce e la speranza che già abita in lui. È la preghiera più grande e più vera che ci sia.
Le ferite, accolte e com-prese, diventano feritoie. La resurrezione di Gesù affida alle nostre mani vuote la ricchezza del vangelo di vita. Apre orizzonti che non solo ci cambiano dentro, ma ci spingono ad andare oltre. Come le nostre ferite, le sue piaghe… segni di salvezza, segni di speranza.
Nessuno è escluso da questo cammino. Conoscere le regole, le tradizioni religiose, non basta a convertire la nostra consapevolezza. Cambiare vita, cambiare criteri è possibile solo a partire dall’esperienza della prossimità di Dio che visita la nostra casa quando accogliamo l’altro. Il vero segno della nostra conversione è l’accorgerci dell’altro, della sua presenza interpellante, l’accorgerci della presenza del povero, che ha diritto di vita. L’esperienza di Dio che si occupa di noi ci guarisce dall’indifferenza che sclerotizza il cuore.

Le ferite del nostro territorio
Le ferite del nostro tempo, del nostro territorio, della nostra società, non sono nascoste a Dio, e sono queste oggi sacramento, luogo della riconciliazione, banchetto dell’eucaristia. Sono queste il corpo e il sangue di Cristo. Sono queste il tabernacolo della speranza.
In Gesù, nel suo corpo donato come vita che fa vivere, Dio chiama noi, oggi, a vivere la liberazione dall’angoscia che opprime il cuore, dalla cecità che ci chiude di fronte al male presente, alle ferite di una umanità prostrata.
I veri discepoli di Gesù non li trovate tra quelli che minacciano l’ira di Dio o interpretano le calamità dei tempi come segni dell’ira di Dio, come se Dio avesse bisogno di catastrofi o di castighi per salvare l’umanità. Che brutta immagine di Dio. I veri credenti non annunciano il castigo di Dio ma annunciano la vicinanza amorevole di Dio. Una vicinanza su cui contare.
Qualcuno ha letto il rito dei battenti come un addossarsi il peccato di molti, un riconoscere la propria responsabilità e chiedere che Dio plachi la sua ira e abbia pietà. Un conto è domandare pietà a un Dio giudice o indifferente, un conto è domandare a un Dio che è Signore della vita. Il peccato del mondo è stato già vinto dal Signore Gesù: egli ci ha strappato dal peccato e dalla morte. Ci ha consegnato alla vita, ci ha benedetti. Urge la nostra risposta, di figli e fratelli. La nostra capacità di vedere strade di bene percorribili, di trasformare le ferite in feritoie di luce.
Non arrestiamo i nostri passi, soprattutto quando il cammino sembra essere tutto in salita, quando non sappiamo nemmeno cosa sia meglio o più giusto fare. Maria si è non solo affidata ma si è fidata. È corsa da Elisabetta che aveva bisogno di aiuto. Guardiamoci intorno, la sete di vita dell’altro bussa alla nostra porta ed è anche la nostra sete. Lacrime che diventano scintille di luce e di speranza, che illuminano la notte, che accendono il cammino.
Cerchiamo di conoscere le ferite di questa terra, a capire cosa insieme possiamo concretamente fare. Impariamo a versare il vino che oggi abbiamo tra le mani per lenire le ferite di chi fa penitenza, sulle ferite di chi vive con sacrifici inesprimibili la propria vita.

Sangue versato: rovesciamento di prospettiva
Il sangue versato da chi oggi si batte il petto, in tanti modi, da chi oggi sceglie di fare penitenza, non è per implorare la pietà di Dio. Dio ha pietà di noi! Ci conosce, è già vicino. Forse è più per implorare la pietà degli uomini, perché imparino a chinarsi sulle ferite, a provare compassione, ad avvicinarsi, a farsene davvero carico, a non essere indifferenti.
Il battente è parte dell’intera comunità in cammino. La sua convinzione ci strappa il coraggio di credere che non si tratta di emozioni passeggere, della grazia di un momento, ma della propria consapevolezza dell’uomo che soffre, del proprio accorgersi delle ferite dell’altro, dell’urgenza di andargli incontro. Ed è il riconoscimento di queste ferite e di Dio che non abbandona nessuno, a generare in noi la forza della conversione. Oltre la religiosità e l’espiazione… c’è il senso di un peccato sociale che riconsegna alla responsabilità dell’uomo una terra diventata ostile. Non è l’ostilità delle catastrofi naturali… è l’ostilità del cuore dell’uomo. Nella consapevolezza di questo sangue che continua a essere versato, la consapevolezza che solo Dio ci può salvare, ma non senza di noi. Nelle ferite scorgiamo la luce che indica la strada. Il corpo di Gesù è già il corpo di ogni uomo, di quelli che piangono, soffrono, ed è già trasfigurato.
Il fare penitenza allora è segno dell’avere incontrato il Signore, di avere riconosciuto la sua signoria, di volerlo seguire, sui sentieri della speranza, dell’amore possibile come giustizia, prossimità. Sentieri di profonda conversione a Dio, al fratello. Il sangue versato in segno di penitenza ci chiede di riflettere sul sangue che viene versato oggi, sangue innocente, di vittime del sopruso di molti. È domanda al nostro credere perché dia ragione della sua speranza nel servire l’umano redento in Gesù Cristo ma che ancora soffre delle ferite provocate dall’arbitrarietà dell’uomo, delle ferite provocate dalla solitudine di fronte agli eventi della vita.
Sangue versato… è il grido che sale a Dio, ferite, piaghe che solo la misericordia che passa attraverso il cuore dell’uomo può curare, misericordia che si china, che non scende dall’alto, ma dal basso si piega a curare, a guarire. Se vedo, mi fermo, tocco, se asciugo una lacrima, non cambio il mondo, ma prende forza l’idea che la fame non è invincibile, che le lacrime degli altri hanno dei diritti su di me, che io non abbandono alla deriva chi ha bisogno. E che il contrario dell’amore è l’indifferenza. Ogni vita muore se non è toccata. Muore di silenzi. Il cuore può morire per assenza di incontri.
«Perché non gridare ai quattro venti che la nostra credibilità di cristiani non ce la giochiamo in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapremo porre al “corpo e al sangue”» dei giovani disoccupati? La mancanza di lavoro colpisce i giovani costretti ad emigrare, costretti nella gabbia del presente, incapaci di pensare al futuro. L’assenza di prospettive, di progettualità, butta anche noi nello sconforto. La fragilità e il senso di fallimento entra nei legami e li avvelena. Mette in crisi la società alla sua base, dal suo interno: le famiglie sono le prime a soffrirne… Da luoghi a ferite.
Ferite che ne fanno emergere altre. Abbiamo bisogno di ridare un volto umano alla nostra società.
Abbiamo bisogno di riscoprirci comunità che va incontro, che si mette in viaggio, che esce dai ritualismi, dalle sacrestie, dall’apparente benessere e opulenza.
Sentiamo il peso dell’isolamento di chi non ce la fa, di chi non riesce a stare al passo con i mutamenti sociali. Una società che esclude il debole in quanto debole. Una società che esclude la normalità. La nostra terra non è lontana anzi è parte della terra dei fuochi. Conseguenza di un male che ci sovrasta, contro cui non pensiamo di poter combattere, tantomeno vincere. Male che ha la sua efficacia sulla salute, dei più piccoli e indifesi… male che ha la sua efficacia sull’incremento dei tumori. Ma il Vangelo ci chiede di non rassegnarci, di non arrenderci, di non consentire alla verità di vivere sommersa dalla menzogna. Ci è chiesto come persone un impegno tenace, umile, quotidiano, che si prenda cura delle ferite, dei volti. Si conosce solo in ginocchio. La misericordia è un fatto di grembo e di mani. L’attesa di Dio non si coniuga con il disimpegno, con l’evasione, ma con la cura della terra. Gli occhi non chissà dove, non in chissà quali illusioni, no, gli occhi che guardano il presente. Diventiamo grembo per il futuro, ponendo gesti, non importa se piccoli, che vadano non verso la devastazione della terra, non verso l’appiattimento dello spirito, non verso la vittoria dell’egoismo, non verso la sordità al grido dei poveri, ma gesti che preludono a nascite, che portano germi di speranza per il futuro. Dar credito alla speranza, abbandonarsi alla misericordia. La misericordia è il profumo di Dio.
Versano sangue oggi, in questa nostra terra, le ferite delle montagne deturpate, diventate roghi, di cui il crepitio sale a Dio, terra bruciata dall’abuso e dall’arbitrarietà di chi dovrebbe proteggerla. La natura che ci circonda è corpo vivo delle nostre relazioni. I roghi parlano dei roghi accesi nel nostro vivere in relazione, nella nostra società, nella nostra quotidianità. Roghi di risentimenti, di vendette, di risposta all’ingiustizia con la difesa di sé, con ogni mezzo. La nostra sete di conversione se non attraversa la realtà di questi roghi non può diventare volto di misericordia. «Dobbiamo protestare con chi ci ammorba l’acqua, con chi ci avvelena il vino (…) Dobbiamo protestare contro coloro che violentano la natura, che deturpano i paesaggi, che speculano sulle bellezze della terra». È questa Eucaristia concreta che esige la nostra conversione. Quando tentati dallo scoraggiamento per quanto succede, stareste per cedere alla sfiducia, alle voci di coloro che vi vogliono convincere che non vale la pena lottare, fate resistenza e dite: nonostante le contraddizioni dei nostri giorni, noi scegliamo di seguire le sue tracce, un giorno il Signore verrà.
Le ferite della nostra terra, che rispecchiano le ferite del mondo intero, non possono non interpellarci come credenti in Gesù Cristo. Sono le sue piaghe, feritoie di luce, a portare luce di speranza. E la speranza siamo noi, che con le nostre mani, l’impegno concreto, siamo chiamati a prendercene cura.
C’è una resistenza da mettere in campo, ed è la resistenza all’inganno. Cioè resistete a ognuno che voglia comprarvi l’anima, decidendo lui per voi e per tutti, resistete ad ogni dittatura dello spirito e di quant’altro. Detronizzateli dentro di voi e insegnate a detronizzare.

Un canto di speranza
“Non temere, tu hai trovato grazia presso Dio”. La vita ce lo ricorda in mille modi, ce lo ricorda l’altro che ci chiede di essere accolto, che ci esprime il suo bisogno. Il canto di speranza è il canto della riconciliazione! E questo canto di speranza diventa fermento oggi, per una fede più viva, per parole dense di significato, di vita, di misericordia. Volti di misericordia perché abbiamo incontrato la misericordia di Dio! Occhi più aperti alla verità e al riconoscimento del bene.
Maria davvero ci porta a Gesù, a camminare con lui. Ci consegna al cammino di misericordia, con gli occhi della speranza, della gioia. Prendiamoci cura di questa umanità che è stata riversata nel nostro grembo… lasciamoci rigenerare da Dio all’amore, alla pace che non è assenza di inquietudini ma è mani impegnate a curare, sporche dei dubbi, della fatica dell’attraversare e superare i conflitti.
Il canto di speranza di una terra! La sfida di credere oggi: questo è il cammino che ci unisce come Chiesa, come persone, come società.
Se Maria è donna dell’attesa, siamo anche noi in lei umanità in attesa. Attesa di Dio nell’attesa dell’altro. Attesa di credere insieme, di sporcarci insieme le mani con la speranza!
Testimoni di misericordia, testimoni di un Dio che perdona, di un Dio che ci viene incontro nella prossimità degli ultimi. In Maria accade qualcosa che è un segno grande! Il sogno di Dio si fa storia. Dio viene a vivere con noi. E noi possiamo vivere con Lui. Questo grande disegno di salvezza Maria ha accolto nel suo grembo, un giorno, uno dei tanti giorni della sua esistenza, nella sua casa umile, nel suo piccolo paese.
La grandezza di Maria sta nel lasciarsi amare, come realtà più vera del suo essere, nell’accogliere la sua vita come benedizione di Dio per la vita di altri. Nell’affidare a Dio il suo futuro.
Dio lascia tracce di sé nella nostra vita, tracce umili, segni riconoscibili nell’intimità di un incontro, nel silenzio. Nel magnificat è ricompresa tutta una storia, tutto il senso, tutta una vita, tutto il popolo. Questo fa Dio, dona futuro. Lo Spirito ci fa esultare di gioia in Dio nostro salvatore.
Maria ci insegna che prima del grazie viene la lode. È la lode a Dio che ci conduce a celebrare insieme la vita. Primato della lode a Dio! Primato della benedizione ai fratelli! La lode attraversa il grazie, non più per quanto Dio ha compiuto nella nostra vita ma per il fatto che è Signore nella nostra vita. Ringraziare Dio perché è Signore della vita, delle nostre vite, della nostra storia. Per il fatto che niente può allontanarci da questa profonda verità del nostro essere. Andare incontro a Maria è per noi un credito alla speranza. È una stimolazione al coraggio. È un atto di fede nel domani. È fare largo al futuro. È dare spazio alla progettualità. È affermare che il mondo continuerà dopo di noi, nonostante i “catastrofismi” imperanti. È ripetere a tutti che la Storia non si arresta, e che noi possiamo ancora scriverne capitoli esaltanti. È proclamare che Gesù è il Redentore e che della sua Redenzione l’universo intero respira e si nutre.
Cristo non ci ha trasmesso una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua ostinata tenerezza. Allora anche tu racconta che Lui è vivo, che vince l’amore, che vince la vita. L’amore che sulla croce sembrava perdente, ha vinto, ha sconfitto la morte. Allora vai, dì che si può cambiare rotta, dì che non vince la morte, ma vince l’amore. Ma dillo con i tuoi gesti. Dillo con la tua cura. Noi a volte diciamo che è risorto ma a voce vuota e ancor più a gesti vuoti. Ma come è possibile dire la resurrezione, dire la vita, con gesti senza vita, con gesti che non si prendono cura della vita, che non comunicano fiducia nella vita? Che la resurrezione sia scritta sui volti, sul tuo volto, sia scritta nella vita, nella tua vita.

La “festa” dell’Assunta sia luce nelle nostre relazioni, progetti, desideri, cammini… luce che anticipa.

Nel nostro desiderio di essere benedizione reciproca per la vita dell’altro, scenda davvero su tutti noi la benedizione di Maria…

+ don Mimmo, vescovo