Il sacerdote è il dispensatore della grazia

Ritiro del Clero presso l'Aula Liturgica "Padre Pio Santo" (Piana Romana) - Pietrelcina (BN)
16-06-2022

 

Cari fratelli ci troviamo, qui oggi, in questo nostro ritiro in questo luogo che parla della presenza del frate santo, di San Pio da Pietrelcina. Oggi vogliamo pensarlo come sacerdote ricordando come padre Pio ha vissuto in pieno la grazia del sacramento dell’Ordine sacro che è la partecipazione al Sacerdozio di Cristo, come insegna la Chiesa: «Il sacerdozio, in ogni suo grado, e quindi sia nei Vescovi sia nei Presbiteri, è una partecipazione del sacerdozio di Cristo, che, secondo la Lettera agli Ebrei, è l’unico “Sommo Sacerdote” della nuova ed eterna Alleanza, che “ha offerto sé stesso una volta per tutte”. Padre Pio è prima di tutto e soprattutto sacerdote di Cristo! “Sono diventato un mistero a me stesso” è una frase di Sant’Agostino che Padre Pio riferisce a se stesso. Il “vero” Padre Pio si trova essenzialmente nella celebrazione dell’Eucaristia e nel mistero del confessionale, ossia nei momenti del ministero sacerdotale. Ha evangelizzato, ha convertito, sull’altare e nel Confessionale. Ha realizzato il monumento della Carità che è la Casa Sollievo della Sofferenza ricordandoci che stare vicino a Gesù crocifisso ci fa stare vicino a chi è crocifisso, nella vita, dalla malattia, povertà, violenza, solitudine. Ai tanti dubbi, incertezze, esitazioni che ci rendono a volte stanchi, sfiduciati ed anche disorientati, San Pio come risposta dice che il sacerdote è e deve rimanere l’uomo della meditazione, della profonda vita interiore, dispensatore della grazia, ministro dell’Eucaristia. Padre Pio è stato tutto questo, veramente, totalmente, intensamente! Soltanto così il sacerdote potrà fronteggiare una società sempre più materialistica, edonista, consumista. Più preti, più uomini di Dio. Sacerdote di Cristo, sii te stesso.

Ogni sacerdote, segnato dal “carattere” proprio del sacramento dell’Ordine, è configurato a Cristo e agisce in nome e in persona Christi. Infatti, se egli può consacrare il pane e il vino, se egli può assolvere i peccati, è solo perché agisce «in nome e nella persona di Cristo, Capo». E se agisce in nome e nella persona di Cristo sull’altare, deve agire in nome e nella persona di Cristo nella vita. Padre Pio chiamava la Messa “un mistero tremendo”, come partecipazione alle sofferenze stesse del Crocifisso. “C’è nella Messa – diceva – tutto il Calvario”. Per il suo 25° di Sacerdozio scrisse: «O Gesù mia vita, mio tutto. / Nel gaudio di ebbrezze rinnovate rendimi / altare per la tua croce / calice d’oro per il tuo sangue / ostia pura per il tuo sacrificio /olocausto / amore / preghiera / per me / per quanti vivi e defunti / sono cari al mio cuore».

Nel ministero il sacerdote è accompagnato da grazie speciali» che gli vengono dalla ordinazione proprio per l’esercizio del ministero e san Pio visse una sua piena corrispondenza alle grazie speciali legate alla sua Ordinazione sacerdotale, insieme ai carismi particolari che il Signore gli aveva dato. Nella messa Padre Pio era contemporaneamente «sacerdote e vittima, vittima e sacerdote come Gesù».

Per questo Gesù ha potuto renderlo pienamente partecipe del suo Sacerdozio, e neanche un mese dopo dalla sua Ordinazione riceveva a Pietrelcina, qui, ai piedi di quest’olmo, le stimmate, quelle invisibili, e tre mesi dopo chiedeva al suo Padre spirituale di offrirsi vittima per i peccatori e le anime purganti, affermando di aver già fatto questa offerta e di volere solo la ratifica dell’obbedienza. Vittima d’amore, “ostia pura santa e immacolata” come Gesù il cui sacrificio e olocausto della Croce si rinnova ogni giorno sull’altare. Egli portò nel suo corpo vive e sanguinanti, le stimmate, senza intermittenze, per 50 anni di seguito: una persona totalmente trasfigurata in Gesù.

Cari amici, in virtù della ordinazione sacerdotale a ognuno di noi sono state date grazie speciali che vengono in aiuto della nostra debolezza, che ci ricordano che la nostra vita è stata donata al Signore e che deve essere donata alle comunità nelle quali siamo chiamate a svolgere il nostro ministero. In questo tempo, tempo coperto come da un velo triste che copre il mondo e le città… c’è più paura e tristezza che gioia. Ci sono motivi. Vediamo moltiplicarsi la violenza. violenza per la violenza e vogliamo pensare ai 19 bambini uccisi senza motivo in America; poi gli omicidi, specie delle donne, espressione di uomini vili e frustrati. Penso alla guerra. La paura consiglia di chiudersi di fronte alla violenza, di creare muri attorno alla propria vita, alla casa, al quartiere. La pandemia ha accentuato questo atteggiamento. La guerra poi ha fatto crescere il costo della vita che per tanti era già pesante.

Non possiamo però tenere prigioniero il Vangelo. Sacerdote sii te stesso. Questa è la sfida: comunicare il Vangelo, nascosto dietro i muri dell’abitudine, della rassegnazione, delle piccole tensioni, dell’egoismo, del localismo, della chiusura. Così si diventa vecchi, qualunque età si abbia.

Ma la Parola di Dio non è incatenata” (2 Tim 2,9) – grida Paolo dalla prigionia, prima del martirio, scrivendo a Timoteo, da dove -nonostante le catene- sogna di cambiare i cuori di cittadini e sudditi dell’impero romano.

Abbiamo celebrato da poco la Pentecoste. È venuta la speranza: il domani sarà meglio di oggi. Vento e fuoco dello Spirito aprono le frontiere della paura. Apriamo, contenti e impegnati, i nostri cuori. Il Signore vuole dare la gioia a tanti, vuole un cristianesimo felice.

Liberiamo, fratelli, la Parola dalle catene. Sacerdote sii te stesso. Paolo si rivolge ai romani, parlando dello Spirito: gente che abitava nella capitale, centro dell’impero, dove c’erano potenza e ricchezza e sembrava non ci fosse bisogno di niente dagli altri, del mondo.

Non facciamoci intimidire dalla cultura del nostro tempo, dalla distrazione verso il Signore che tanti vivono o dalla fatica, dai tanti problemi che ci sono! “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo,

ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm 12,1-2) Tante volte sono i ragionamenti conformisti o prudenti che svuotano il Vangelo della croce di Cristo. Giovanni Paolo II citava sempre Paolo: “perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1 Cor 1, 17).  San Pio diceva: “C’è nella Messa tutto il Calvario”. Le catene di questo mondo svuotano il Vangelo. “Noi non abbiamo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!” Disse Pietro al paralitico.

La nostra forza è nel nome di Gesù, la nostra forza sono le parole del Vangelo che chiede di lottare, sempre. È qualcosa di più che la non violenza. Scrive Paolo: “non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom 12,21).

Prima di tutto dobbiamo vincere ogni violenza in noi, con la fraternità. Talvolta, tra fratelli, si fa crescere lo spirito di estraneità, anche nella vicinanza crescono abitudine e insofferenza. “quello, lo conosco” “io non sono stato invitato”, “io non sono stato coinvolto”, “io non sono stato rispettato nelle mie competenze”, “questo non spettava a lui ma a me”. Dopo la Pentecoste, dobbiamo far crescere l’amore fraterno se vogliamo cadano i muri e il mondo e cresca la pace del mondo!

Alzati e va a Ninive la grande città…” dice per due volte Dio a Giona, che Dio vuole profeta. Giona è la Chiesa che non è interessata a che la gente di Ninive ottenga la misericordia e possa cambiare vita… Questo è il punto doloroso: non gli importa. Invece è la storia. Giona sono io, che non voglio fare storia e cerco riparo per me. Giona una prima volta fugge lontano e si ritrova su di una nave in un mare in tempesta: dorme e non si preoccupa dell’angoscia dei marinai pagani. Ma questi non sono così cattivi e, costretti a gettarlo in mare per salvarsi, non pregano gli idoli ma il Signore. Gli altri sono più cercatori di Dio di quanto Giona creda. Lui, da parte sua, fa l’esperienza della misericordia: un pesce lo salva per tre giorni e tre notti in mare per gettarlo all’asciutto. Chi di noi non ha fatto l’esperienza della misericordia? La sua preghiera del bisogno -nel capitolo secondo- rivela che Giona è credente e religioso. Una religione però senza fiducia in Dio e senza amore. Dobbiamo diffondere un cristianesimo felice fondato sulla vicinanza e sulla fiducia in Dio…

Dio lo invia di nuovo a Ninive: “annunzia quanto ti dirò”. Personalmente credo che, dopo questa Pentecoste, all’inizio del nuovo anno del Sinodo, Dio ci invia di nuovo. Dio ci invia di nuovo nella nostra città, dai nostri fedeli, quelli vicini e quelli lontani che sono molti di più per ascoltare e costruire fraternità a partire dal desiderio del Signore che la vita degli uomini sia felice, che si convertano a sentimenti e pensieri nuovi, soprattutto pensieri di pace. La predicazione di Giona tocca i cuori. Persino il re si convertì e proclamò un digiuno e una grande preghiera, perché Dio s’impietosisse e cambiasse idea sulla condanna di Ninive. Giona forse non credeva che il popolo potesse cambiare. Si accontenta di essere una minoranza. Come certi ambienti cattolici, contenti di essere pochi, piccoli e con valori chiari.

Ninive sono i tanti della nostra città che aspettano Giona che cammini per la città parlando nel nome di Dio. Sono i giovani rimasti delusi perché nessuno li è andati a cercare. Giona non sogna per la città, possiamo dire per la Diocesi… Alla fine si ripara in quella che era la sua pace: un riparo di frasche, guardando da estraneo la città. Un ricino gli faceva ombra e ne provò grande gioia. Un riparo, non l’avventura per una città come Ninive. Per noi l’avventura è quella del Sinodo. Il ricino poi si seccò -capita- e Giona era furioso fin da invocare la morte. Poveretto, ma perché soffriva tanto per niente? La Chiesa può essere un riparo di frasche? Dio dice a Giona: “Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?”. Quanti sdegni per cose che non valgono. Non mi avete coinvolto… non sono stato aiutato… non capito… Non cambia mai nulla. Giona è così convinto che risponde male al Signore. Talvolta abbiamo risposto male al Signore con la vita e con le parole.

Dio ha misericordia di Ninive e per questo pure di me. Qualche volta penso che Giona, chiuso e integrista, siamo noi, che non crediamo che possa cambiare la storia, ma corriamo nella capanna-rifugio, ce la prendiamo con gli altri, fuggiamo dai sogni di Dio o gli rispondiamo. Ci fa paura una visione grande e una missione grande. Ci fa paura il mondo. Non ci accorgiamo della storia. La storia di un mondo pieno di violenza che ha bisogno di pace.

È venuto il tempo in cui dire, come facciamo ogni domenica nel Credo: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita”. Lo Spirito del Sinodo ci spinge fuori, ci manda per le strade e per le piazze, ci dà il coraggio di parlare e il potere di esprimerci, cioè di farci capire. Sì, di farci capire! Il Vangelo dev’essere comunicato ma anche capito. Capito dai bambini e dagli anziani, dagli adulti e dai giova ni, da ogni generazione. Il potere di esprimerci è anche il potere di farci capire.

Da dove partire? Sacerdote sii te stesso. Partiamo dalla liturgia della domenica, non sia un rito, ma una celebrazione curata, momento di incontro con Dio e con i fratelli e le sorelle della Comunità parrocchiale. La storia di Giona ci chiama tutti a essere evangelofori. Vivere da cristiani è cosa seria. Anche noi possiamo fare una cosa seria. Vivere da cristiani è cosa gioiosa e seria allo stesso tempo. Serio non è triste. Facciamo cose serie e siamo nella gioia. È la gioia di chi non vive più per il proprio interesse, ma per quelli di Gesù Cristo, come dice l’apostolo Paolo. Cristiani cristificati. Vivere da cristiani è una cosa seria e felice. È possibile. un cristianesimo felice. Il cristianesimo della felicità prende sul serio il Vangelo e affida la sua vita al Signore… Un cristianesimo felice, per tutti, perché cresca l’amore per la vita, anche quella debole e fragile e l’amore per la pace. Un cristianesimo felice che ha radici nella fraternità. Dobbiamo inventarci occasioni e strade perché le nostre comunità parrocchiali siano luoghi di fraternità, nel nome di Gesù, il Nazareno. A partire dalle nostre liturgie, mistero tremendo dell’amore di Dio per il nostro popolo. Che non siano mai banali, ma momenti di incontro con Gesù morto e risorto per amore nostro.

† Giuseppe, vescovo