“Duc in altum!” – Anno Pastorale 2021-22

Anno Pastorale 2021-2022

 

“Il sacerdote è il dispensatore della grazia”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso l’Aula Liturgica “Padre Pio Santo” (Piana Romana) a Pietrelcina, 16 giugno 2022

“Maria, Madre della misericordia”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso il Santuario “Maria SS. del Roseto” a Solopaca, 12 maggio 2022

“Convertirci alla Pace”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso l’Aula Magna del seminario diocesano a Cerreto Sannita, 19 marzo 2022

“Preghiera e predicazione” (Luca 18,1-8)
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso la Chiesa “S. Maria del Carmine” a Faicchio, 10 febbraio 2022

“L’assemblea che celebra”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso la Chiesa “S. Maria del Carmine” a Faicchio, 13 gennaio 2022

“La Domenica, il giorno che salva”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro per il Ritiro del Clero presso il Santuario “Maria SS. delle Grazie” a Cerreto Sannita, 16 dicembre 2021

“Dare inizio al nostro rinnovamento”
Meditazione di don Franco Pezone per il Ritiro del Clero presso il Santuario “Maria SS. delle Grazie” a Cerreto Sannita, 12 novembre 2021

Calendario Ritiri mensili per il Clero e i Diaconi

“Duc in altum!” – Plenum con i sacerdoti diocesani
Incontro del vescovo Giuseppe con i sacerdoti – Aula Magna del Seminario diocesano, 28 settembre 2021

Curare le relazioni al tempo della ripresa
Lettera della Presidenza CEI a tutti i Vescovi all’inizio del nuovo anno pastorale, 8 settembre 2021


Ritiro del Clero

Aula Liturgica “Padre Pio Santo” (Piana Romana)
Pietrelcina (BN)

16 giugno 2022

“Il sacerdote è il dispensatore della grazia”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Cari fratelli ci troviamo, qui oggi, in questo nostro ritiro in questo luogo che parla della presenza del frate santo, di San Pio da Pietrelcina. Oggi vogliamo pensarlo come sacerdote ricordando come padre Pio ha vissuto in pieno la grazia del sacramento dell’Ordine sacro che è la partecipazione al Sacerdozio di Cristo, come insegna la Chiesa: «Il sacerdozio, in ogni suo grado, e quindi sia nei Vescovi sia nei Presbiteri, è una partecipazione del sacerdozio di Cristo, che, secondo la Lettera agli Ebrei, è l’unico “Sommo Sacerdote” della nuova ed eterna Alleanza, che “ha offerto sé stesso una volta per tutte”Padre Pio è prima di tutto e soprattutto sacerdote di Cristo! “Sono diventato un mistero a me stesso” è una frase di Sant’Agostino che Padre Pio riferisce a se stesso. Il “vero” Padre Pio si trova essenzialmente nella celebrazione dell’Eucaristia e nel mistero del confessionale, ossia nei momenti del ministero sacerdotale. Ha evangelizzato, ha convertito, sull’altare e nel Confessionale. Ha realizzato il monumento della Carità che è la Casa Sollievo della Sofferenza ricordandoci che stare vicino a Gesù crocifisso ci fa stare vicino a chi è crocifisso, nella vita, dalla malattia, povertà, violenza, solitudine. Ai tanti dubbi, incertezze, esitazioni che ci rendono a volte stanchi, sfiduciati ed anche disorientati, San Pio come risposta dice che il sacerdote è e deve rimanere l’uomo della meditazione, della profonda vita interiore, dispensatore della grazia, ministro dell’Eucaristia. Padre Pio è stato tutto questo, veramente, totalmente, intensamente! Soltanto così il sacerdote potrà fronteggiare una società sempre più materialistica, edonista, consumista. Più preti, più uomini di Dio. Sacerdote di Cristo, sii te stesso.

Ogni sacerdote, segnato dal “carattere” proprio del sacramento dell’Ordine, è configurato a Cristo e agisce in nome e in persona Christi. Infatti, se egli può consacrare il pane e il vino, se egli può assolvere i peccati, è solo perché agisce «in nome e nella persona di Cristo, Capo». E se agisce in nome e nella persona di Cristo sull’altare, deve agire in nome e nella persona di Cristo nella vita. Padre Pio chiamava la Messa “un mistero tremendo”, come partecipazione alle sofferenze stesse del Crocifisso. “C’è nella Messa – diceva – tutto il Calvario”. Per il suo 25° di Sacerdozio scrisse: «O Gesù mia vita, mio tutto. / Nel gaudio di ebbrezze rinnovate rendimi / altare per la tua croce / calice d’oro per il tuo sangue / ostia pura per il tuo sacrificio /olocausto / amore / preghiera / per me / per quanti vivi e defunti / sono cari al mio cuore».

Nel ministero il sacerdote è accompagnato da grazie speciali» che gli vengono dalla ordinazione proprio per l’esercizio del ministero e san Pio visse una sua piena corrispondenza alle grazie speciali legate alla sua Ordinazione sacerdotale, insieme ai carismi particolari che il Signore gli aveva dato. Nella messa Padre Pio era contemporaneamente «sacerdote e vittima, vittima e sacerdote come Gesù».

Per questo Gesù ha potuto renderlo pienamente partecipe del suo Sacerdozio, e neanche un mese dopo dalla sua Ordinazione riceveva a Pietrelcina, qui, ai piedi di quest’olmo, le stimmate, quelle invisibili, e tre mesi dopo chiedeva al suo Padre spirituale di offrirsi vittima per i peccatori e le anime purganti, affermando di aver già fatto questa offerta e di volere solo la ratifica dell’obbedienza. Vittima d’amore, “ostia pura santa e immacolata” come Gesù il cui sacrificio e olocausto della Croce si rinnova ogni giorno sull’altare. Egli portò nel suo corpo vive e sanguinanti, le stimmate, senza intermittenze, per 50 anni di seguito: una persona totalmente trasfigurata in Gesù.

Cari amici, in virtù della ordinazione sacerdotale a ognuno di noi sono state date grazie speciali che vengono in aiuto della nostra debolezza, che ci ricordano che la nostra vita è stata donata al Signore e che deve essere donata alle comunità nelle quali siamo chiamate a svolgere il nostro ministero. In questo tempo, tempo coperto come da un velo triste che copre il mondo e le città… c’è più paura e tristezza che gioia. Ci sono motivi. Vediamo moltiplicarsi la violenza. violenza per la violenza e vogliamo pensare ai 19 bambini uccisi senza motivo in America; poi gli omicidi, specie delle donne, espressione di uomini vili e frustrati. Penso alla guerra. La paura consiglia di chiudersi di fronte alla violenza, di creare muri attorno alla propria vita, alla casa, al quartiere. La pandemia ha accentuato questo atteggiamento. La guerra poi ha fatto crescere il costo della vita che per tanti era già pesante.

Non possiamo però tenere prigioniero il Vangelo. Sacerdote sii te stesso. Questa è la sfida: comunicare il Vangelo, nascosto dietro i muri dell’abitudine, della rassegnazione, delle piccole tensioni, dell’egoismo, del localismo, della chiusura. Così si diventa vecchi, qualunque età si abbia.

Ma la Parola di Dio non è incatenata” (2 Tim 2,9) – grida Paolo dalla prigionia, prima del martirio, scrivendo a Timoteo, da dove -nonostante le catene- sogna di cambiare i cuori di cittadini e sudditi dell’impero romano.

Abbiamo celebrato da poco la Pentecoste. È venuta la speranza: il domani sarà meglio di oggi. Vento e fuoco dello Spirito aprono le frontiere della paura. Apriamo, contenti e impegnati, i nostri cuori. Il Signore vuole dare la gioia a tanti, vuole un cristianesimo felice.

Liberiamo, fratelli, la Parola dalle catene. Sacerdote sii te stesso. Paolo si rivolge ai romani, parlando dello Spirito: gente che abitava nella capitale, centro dell’impero, dove c’erano potenza e ricchezza e sembrava non ci fosse bisogno di niente dagli altri, del mondo.

Non facciamoci intimidire dalla cultura del nostro tempo, dalla distrazione verso il Signore che tanti vivono o dalla fatica, dai tanti problemi che ci sono! “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo,

ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm 12,1-2) Tante volte sono i ragionamenti conformisti o prudenti che svuotano il Vangelo della croce di Cristo. Giovanni Paolo II citava sempre Paolo: “perché non venga resa vana la croce di Cristo” (1 Cor 1, 17).  San Pio diceva: “C’è nella Messa tutto il Calvario”. Le catene di questo mondo svuotano il Vangelo. “Noi non abbiamo né oro né argento, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, alzati e cammina!” Disse Pietro al paralitico.

La nostra forza è nel nome di Gesù, la nostra forza sono le parole del Vangelo che chiede di lottare, sempre. È qualcosa di più che la non violenza. Scrive Paolo: “non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rom 12,21).

Prima di tutto dobbiamo vincere ogni violenza in noi, con la fraternità. Talvolta, tra fratelli, si fa crescere lo spirito di estraneità, anche nella vicinanza crescono abitudine e insofferenza. “quello, lo conosco” “io non sono stato invitato”, “io non sono stato coinvolto”, “io non sono stato rispettato nelle mie competenze”, “questo non spettava a lui ma a me”. Dopo la Pentecoste, dobbiamo far crescere l’amore fraterno se vogliamo cadano i muri e il mondo e cresca la pace del mondo!

Alzati e va a Ninive la grande città…” dice per due volte Dio a Giona, che Dio vuole profeta. Giona è la Chiesa che non è interessata a che la gente di Ninive ottenga la misericordia e possa cambiare vita… Questo è il punto doloroso: non gli importa. Invece è la storia. Giona sono io, che non voglio fare storia e cerco riparo per me. Giona una prima volta fugge lontano e si ritrova su di una nave in un mare in tempesta: dorme e non si preoccupa dell’angoscia dei marinai pagani. Ma questi non sono così cattivi e, costretti a gettarlo in mare per salvarsi, non pregano gli idoli ma il Signore. Gli altri sono più cercatori di Dio di quanto Giona creda. Lui, da parte sua, fa l’esperienza della misericordia: un pesce lo salva per tre giorni e tre notti in mare per gettarlo all’asciutto. Chi di noi non ha fatto l’esperienza della misericordia? La sua preghiera del bisogno -nel capitolo secondo- rivela che Giona è credente e religioso. Una religione però senza fiducia in Dio e senza amore. Dobbiamo diffondere un cristianesimo felice fondato sulla vicinanza e sulla fiducia in Dio…

Dio lo invia di nuovo a Ninive: “annunzia quanto ti dirò”. Personalmente credo che, dopo questa Pentecoste, all’inizio del nuovo anno del Sinodo, Dio ci invia di nuovo. Dio ci invia di nuovo nella nostra città, dai nostri fedeli, quelli vicini e quelli lontani che sono molti di più per ascoltare e costruire fraternità a partire dal desiderio del Signore che la vita degli uomini sia felice, che si convertano a sentimenti e pensieri nuovi, soprattutto pensieri di pace. La predicazione di Giona tocca i cuori. Persino il re si convertì e proclamò un digiuno e una grande preghiera, perché Dio s’impietosisse e cambiasse idea sulla condanna di Ninive. Giona forse non credeva che il popolo potesse cambiare. Si accontenta di essere una minoranza. Come certi ambienti cattolici, contenti di essere pochi, piccoli e con valori chiari.

Ninive sono i tanti della nostra città che aspettano Giona che cammini per la città parlando nel nome di Dio. Sono i giovani rimasti delusi perché nessuno li è andati a cercare. Giona non sogna per la città, possiamo dire per la Diocesi… Alla fine si ripara in quella che era la sua pace: un riparo di frasche, guardando da estraneo la città. Un ricino gli faceva ombra e ne provò grande gioia. Un riparo, non l’avventura per una città come Ninive. Per noi l’avventura è quella del Sinodo. Il ricino poi si seccò -capita- e Giona era furioso fin da invocare la morte. Poveretto, ma perché soffriva tanto per niente? La Chiesa può essere un riparo di frasche? Dio dice a Giona: “Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino?”. Quanti sdegni per cose che non valgono. Non mi avete coinvolto… non sono stato aiutato… non capito… Non cambia mai nulla. Giona è così convinto che risponde male al Signore. Talvolta abbiamo risposto male al Signore con la vita e con le parole.

Dio ha misericordia di Ninive e per questo pure di me. Qualche volta penso che Giona, chiuso e integrista, siamo noi, che non crediamo che possa cambiare la storia, ma corriamo nella capanna-rifugio, ce la prendiamo con gli altri, fuggiamo dai sogni di Dio o gli rispondiamo. Ci fa paura una visione grande e una missione grande. Ci fa paura il mondo. Non ci accorgiamo della storia. La storia di un mondo pieno di violenza che ha bisogno di pace.

È venuto il tempo in cui dire, come facciamo ogni domenica nel Credo: “Credo nello Spirito Santo che è Signore e dà la vita”. Lo Spirito del Sinodo ci spinge fuori, ci manda per le strade e per le piazze, ci dà il coraggio di parlare e il potere di esprimerci, cioè di farci capire. Sì, di farci capire! Il Vangelo dev’essere comunicato ma anche capito. Capito dai bambini e dagli anziani, dagli adulti e dai giova ni, da ogni generazione. Il potere di esprimerci è anche il potere di farci capire.

Da dove partire? Sacerdote sii te stesso. Partiamo dalla liturgia della domenica, non sia un rito, ma una celebrazione curata, momento di incontro con Dio e con i fratelli e le sorelle della Comunità parrocchiale. La storia di Giona ci chiama tutti a essere evangelofori. Vivere da cristiani è cosa seria. Anche noi possiamo fare una cosa seria. Vivere da cristiani è cosa gioiosa e seria allo stesso tempo. Serio non è triste. Facciamo cose serie e siamo nella gioia. È la gioia di chi non vive più per il proprio interesse, ma per quelli di Gesù Cristo, come dice l’apostolo Paolo. Cristiani cristificati. Vivere da cristiani è una cosa seria e felice. È possibile. un cristianesimo felice. Il cristianesimo della felicità prende sul serio il Vangelo e affida la sua vita al Signore… Un cristianesimo felice, per tutti, perché cresca l’amore per la vita, anche quella debole e fragile e l’amore per la pace. Un cristianesimo felice che ha radici nella fraternità. Dobbiamo inventarci occasioni e strade perché le nostre comunità parrocchiali siano luoghi di fraternità, nel nome di Gesù, il Nazareno. A partire dalle nostre liturgie, mistero tremendo dell’amore di Dio per il nostro popolo. Che non siano mai banali, ma momenti di incontro con Gesù morto e risorto per amore nostro.

† Giuseppe, vescovo


Ritiro del Clero

Santuario Maria SS. del Roseto
Solopaca (BN)

12 maggio 2022

“Maria, Madre della misericordia”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Cari fratelli,

nel mese di maggio dedicato a Maria ci siamo voluti ritrovare in questo luogo di preghiera intitolato a Lei, la Madonna del Roseto. Questo luogo ha ricevuto il titolo di Santuario, insieme ad altri luoghi a Maria dedicati, perché abbiamo voluto confermare e ratificare quello che già la fede del popolo aveva indicato, cioè che nel cuore della gente questo e gli altri luoghi erano già percepiti come santuario pur senza averne il titolo. Ne sono testimonianza i pellegrinaggi spontanei ed organizzati, come anche la fede dei singoli che ha sempre visto questo, e gli altri luoghi, come casa abitata da Maria, dove venire per portarle gioie, affanni, speranze, dolori, per pregare, supplicare, per aprire il proprio cuore come si può aprire ad una madre premurosa ed affettuosa. Per ricevere, attraverso la preghiera, una sua carezza e fare esperienza della sua tenerezza. Proprio perché è casa di Maria, casa della Madre, è casa che vuole accogliere con amore tutti, che guarda con simpatia tutto ciò che è umano. Tutto. Dio non rinnega nessuno dei suoi figli. È uno dei passaggi centrali della breve “intervista” concessa dal Papa sulla Chiesa e le persone Lgbt. In particolare, al quesito: “Qual è la cosa più importante che le persone Lgbt devono sapere di Dio?”, il Papa risponde in modo molto semplice e altrettanto chiaro: «Dio è Padre e non rinnega nessuno dei suoi figli. E lo stile di Dio è vicinanza, misericordia e tenerezza. Lungo questa strada troverai Dio».

Infine: “Cosa può dire a un cattolico Lgbt che ha subito un rifiuto da parte della Chiesa? «Vorrei che lo vedesse non come “il rifiuto della Chiesa”, ma da parte di “persone nella Chiesa”. La Chiesa è madre e convoca tutti i suoi figli. Prendiamo ad esempio la parabola degli invitati alla festa: i giusti, i peccatori, i ricchi e i poveri, eccetera. Una Chiesa selettiva, di “sangue puro” non è la Santa Madre Chiesa, ma piuttosto una setta».

Il Sinodo ci ha chiesto questo, in particolare verso i lontani: chiesa della vicinanza, della premura, della prossimità, chiesa con un cuore di madre, con il cuore di Maria.

Quanta emozione nel cuore di chi viene qui! Quante lacrime accompagnano la preghiera di tanti e che chiedono a noi di comprendere il bisogno profondo di misericordia, di amicizia sociale, di riconoscere la domanda di amore che la disillusione, la praticoneria, la rassegnazione spesso non ci permettono di comprendere. Quanta attesa di vicinanza, di carezze, di speranza! La devozione che Maria suscita in tanti anche abitualmente lontani, (quanti non praticanti vanno nei santuari), ci spinge a seguire anche noi la giovane donna di Nazareth che va con fiducia verso l’umanità così come è, convinta che tutti possono essere raggiunti da un sentimento di amore. Aiutiamo questa madre con la nostra rinnovata prossimità alle persone, per generare le cose grandi di Dio oggi.

In questo tempo così difficile, incerto, complesso, Maria ci chiede di essere Chiesa madre di misericordia. Il senso della vita della madre sono i figli. La madre è definita dai figli, altrimenti non sarebbe madre. Se la Chiesa non è madre, non ha futuro, perché senza figli diventa sterile, si chiude, si deforma, si ammala. L’amore verso i suoi figli più piccoli qualifica la madre perché si capisce se è davvero madre da come protegge i più deboli e da come chiede agli altri figli di fare altrettanto, come quando si ha un figlio malato. La nostra non può essere mai una “misericordia da burocrati”, insomma che si accontenta di quello che si può fare. La misericordia anticipa il futuro e crea quello che ancora non c’è. E questo non si può delegare e non ci deve spaventare. Non arriva subito; non dobbiamo avere tutte le risposte, ma solo la ferma convinzione che “nulla è impossibile a Dio” e che nulla è impossibile a chi crede. Tanta sofferenza chiede la vicinanza della madre, che non aspetta altro di potere manifestare la sua vicinanza e che non può accettare di perdere uno solo dei suoi figli! Per questo la Chiesa non si compiace di quello che fa, perché ha solo gli interessi di una madre, non è una maestra o un’organizzatrice. Non fa aspettare a lungo, ha sempre fretta la madre, perché sa che farlo significa lacrime, smarrimento nella solitudine, angoscia, indurimento del cuore, disillusione. Questa madre non accetterà mai la logica del mondo, quella del “salva te stesso”, perché lei cercherà la salvezza per i figli, sempre. E continuerà solo a dire: “fate quello che vi dirà”.

Ci fa tanto bene stringerci a lei anche a noi, diversi per età, sensibilità, storia, – perché siamo diversi – eppure tutti figli di questa unica madre. Comprendiamo meglio il tanto che ci unisce, che è sempre nostro, nonostante il nostro peccato. Siamo tutti pastori più o meno maturi, eppure proprio come quando i fratelli si riuniscono attorno alla madre scopriamo sempre meglio che la volontà della madre è che i suoi figli si pensino assieme. Maria Madre dei sacerdoti parla di una fraternità da vivere, di cui siamo poco consapevoli, eppure così necessaria. Una Chiesa che non sa essere luogo della mia fraternità sacerdotale, è una chiesa dove quello che divide ha superato quello che unisce e questo è molto grave perché dietro quello che divide c’è sempre il divisore, sempre pronto a far pensare che in fondo si può stare senza gli altri, che io ho tante cose da fare e non ho tanto tempo. Questo amore tra fratelli intorno a nostra madre non potrà mai diventare un condominio. Questa madre ci chiede con dolcezza, in modo personale perché solo io posso rispondere, di avere cura di questa comunione, di uscire da rifugi personali dove a volte ci isoliamo, di liberarci dalla sottile tentazione di essere autosufficienti, di non preoccuparci del ruolo ma solo di questa casa. Maria, madre della comunione, corre incontro a Elisabetta, ci aiuta a cercare sempre la comunione con lei e con i suoi figli; a farlo anche quando ci sembra tradire le nostre ragioni, perché solo così possiamo essere credibili, perché l’unica ragione è quella di gareggiare nello stimarci a vicenda, perché la comunione non è solo un fine è anche un metodo e solo la comunione ci protegge dal sottile individualismo, ci rende forti, permette di costruire la chiesa. E la comunione cresce se la curiamo, con attenzione, sensibilità, insistenza, Quanta comunione ho trovato nella chiesa di Cerreto e di questo ringrazio di cuore il Signore. I nostri santi patroni ci aiutano in questo. Tante divisioni però sono entrate nella Chiesa. Ci sono critiche e giudizi talvolta molto severi sulle scelte e sulle parole del papa. Soprattutto si va avanti come se non ci fosse una visione comune, almeno sulle questioni più importanti, come se non ci fosse un servitore dell’unità. Lo vediamo in questi mesi di guerra in Ucraina. Addirittura, la tradizionale dottrina della Chiesa sulla pace è sottovalutata e scavalcata – in alcuni episcopati – da posizioni opposte. Tutto questo indebolisce la predicazione della Parola di Dio e la forza profetica del Vangelo.

Fratelli, preghiamo sempre per il papa e per l’unità della Chiesa. E viviamo sempre quello spirito di unità che solo può permetterci di essere profetici e misericordiosi. Il Signore ci ha preservato nell’unità e ne vediamo i frutti buoni: oggi vogliamo dire che l’Ucraina confina con i nostri Paesi e i russi sono nostri fratelli. Questo è il frutto dell’unità per cui vale la pena rinunciare a qualche ragione.

Dicono che per far finire la guerra bisogna fare più guerra, mentre noi diciamo che non è vero che guerra più guerra fa pace in Ucraina e ovunque, ma che significa solo un più grande massacro di vite umane. Molti dibattono e dicono: allora come lo fermate voi Putin? Lo fermate con le preghiere, con le marce per la pace, con le carovane dei pacifisti, con le emozioni della Caritas che portano cibo e medicine in Ucraina e riportano indietro in salvo i disabili e ancora altri profughi? Lo fermate con la diplomazia degli smidollati disposti a parlare con il criminale del Cremlino? Lo fermate con le buone intenzioni, con le buone azioni quelle che le nonne, le madri, le maestre ci insegnavano e ancora ci insegnano quando siamo bambini?

Sembra tutto molto ragionevole, ma c’è da rispondere: scusate ma voi che avete come unica risposta la guerra e tutte le armi e tutte le strategie, tutte le ragioni, e tutti i calcoli giusti, lo avete forse fermato Putin? O vi state facendo suoi soci della nuova guerra? Voi lo state fermando con le vostre armi? Voi che vorreste proibirci anche solo di dire che una terra più piena di armi non è un posto sicuro ma è un mondo che non sa vivere la pace e dunque si prepara a far perdere all’umanità la prossima guerra, voi che risultati state ottenendo?

Maria ci ricorda come la storia d’amore tra Dio e l’uomo inizia in una comunione di volontà, quando la sua e la nostra, quella personale e quella della chiesa, coincidono. L’ultima preghiera di Gesù è per l’unità. Guardando ai discepoli che rappresentano la pienezza del popolo di Dio prega il Padre che “siano una cosa sola, come noi” (Gv.17,11). Gesù prega e muore per l’unità della famiglia umana. Gesù, il Messia, è il segno visibile, dato ai popoli perché smettano di essere dispersi, in lotta, in guerra tra loro. Un segno visibile nel quale ritrovarsi in pace e unità.

Questo sogno antico si è realizzato in Gesù. Innanzitutto, nella sua vita, nelle sue parole, nel Vangelo che ci ha lasciato come parola di vita. Lui si è levato sulla croce per attrarre tutti i popoli alla pace e all’amore. La Chiesa è chiamata ad essere segno visibile di pace, riferimento per l’umanità sulla via della pace.

Cari fratelli, davanti a noi c’è la Pentecoste: sia questo un tempo abitato dallo Spirito! Perché dello Spirito abbiamo bisogno, del respiro sempre nuovo di Dio, che libera da ogni chiusura, rianima ciò che è morto, scioglie le catene, diffonde la gioia. Lo Spirito Santo è Colui che ci guida dove Dio vuole e non dove ci porterebbero le nostre idee e i nostri gusti personali. Non bisogna fare un’altra Chiesa, bisogna fare una Chiesa diversa. E questa è la sfida. Bisogna pregare per la pace e non per la vittoria. Invece oggi i cristiani sia in Ucraina, sia in Russia sono in un certo senso costretti a pregare per la vittoria.

Maria, Madre della speranza, continua a intercedere perché l’acqua sia trasformata nel vino buono del suo amore e perché il Padre e il Figlio riversino su di noi, come in una nuova effusione, lo Spirito Santo, perché la tua Chiesa con entusiasmo comunichi a tutti il vangelo della pace. Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il nostro cuore di sacerdoti e pastori. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra; rendila nuova con il dono della pace.

Amen.

† Giuseppe, vescovo


Ritiro del Clero

Aula Magna
Seminario diocesano
Cerreto Sannita (BN)

19 marzo 2022

“Convertirci alla Pace”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Cari fratelli, ogni volta che celebriamo annunciamo la pace: “Tu che hai detto agli apostoli: Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua chiesa e donale unità e pace secondo la tua volontà”. Ogni celebrazione è un augurio di pace, nell’unità e nella pace, secondo la volontà di Dio.

Cari amici, la pandemia ci ha preparato ad affrontare situazioni impreviste eppure quella che noi stiamo vivendo, ma soprattutto che stanno vivendo gli ucraini non era immaginabile fino a poche settimane fa, è come se si fosse aperta una realtà che non volevamo vedere nonostante già si preparasse da tempo. Tanti avranno pensato: non è possibile, sarebbe assurdo, siamo in Europa, siamo in pace; altri non si sono posti forse domande.

Purtroppo tante risposte non ci sono, ma soprattutto non c’è una risposta alla guerra, non c’è una risposta all’odio, all’orrore di bambini uccisi, se ne contano decine, i dati purtroppo sono sempre provvisori, imprecisi ma oramai si parla di parecchie centinaia di morti civili oltre ai militari.

È bello per noi, per me, stare qui perché la chiesa è casa mia, ma non da solo, voi siete la mia famiglia. La famiglia del vescovo, del sacerdote è il presbiterio. Non la carne, né il sangue ci uniscono, ma lo Spirito del Signore. Qui tutto è nostro perché nessuno è un’isola, siamo tutti parte di un tutto, di un corpo che è la chiesa! Non siamo fatti per essere isole e male è essere  isolati, persone che non sanno volere bene e si difendono dall’amore di Dio e del prossimo che resta lontano, estraneo, indifferente. Gesù, al contrario, rende prossimo anche il nemico!

Il cristiano non è un perfetto: è solo un peccatore perdonato, che ha sempre bisogno di misericordia, e che può essere pieno di luce se ha Gesù nel cuore. In queste settimane così tragiche, nelle quali sperimentiamo oltre la pandemia del Covid anche quella della guerra, ci troviamo a confrontarci con la manifestazione del male. Lo affrontiamo? Aspettiamo che passi? Troviamo rifugio nelle consuetudini? La guerra è sempre il frutto ultimo del male, conseguenza del non avere saputo dominare l’istinto che è sempre accovacciato alla porta del nostro cuore, come ammonisce Dio a Caino. Il male ci porta a cancellare l’altro e con lui la nostra stessa umanità.

Il male ci vuole rendere come vuole lui: aggressivi, violenti, al massimo equilibrati per rispondere al male con il male, occhio per occhio, e soprattutto isolati. Così vince sempre il male, perché diventiamo ciechi tutti, la vittima e l’aggressore. Solo l’amore salva noi e il mondo. Il male semina divisione, cattiveria, pregiudizio usandoci proprio perché pensiamo di potere non fare nulla o di controllare facilmente le conseguenze. Noi stessi, anche non volendolo, finiamo per essere contagiosi del male proprio quando pensiamo che non cambia nulla e soprattutto se non facciamo il bene.

Il male poi rende tutto sporco, brutto. L’amore, invece, rivela la bellezza della nostra vita di tutti i giorni. La preghiera è la nostra forza e poi diventa solidarietà, non resta nel chiuso dei cuori. Quando il nostro cuore diventa tempio dello Spirito vediamo e facciamo vedere anche noi la luce dell’amore, che è anche la luce della pace.

In Italia e in altri paesi europei, stiamo preparando l’accoglienza ai rifugiati dall’Ucraina. A tutt’oggi i rifugiati fuggiti sono più di 2.000.000. Stazionano lungamente, per giorni, alle frontiere. Tutta la Chiesa prega insistentemente per la pace.

Abbiamo paura della guerra. Chi non ha paura della guerra evidentemente è a favore della guerra, anche i soldati russi credete che non abbiano paura della guerra? Tanto più che sono giovani, di leva, inviati al fronte senza neanche sapere  che non andavano a fare delle esercitazioni ma a combattere. Alla logica della guerra, però si sta rispondendo con la logica di forza. In Germania, in poco tempo, si è deciso il riarmo con 100 miliardi di euro di spesa: una svolta storica, rispetto alla vicenda tedesca dopo la seconda guerra mondiale. La Costituzione italiana afferma all’art.11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”.

Da più parti, si grida al confronto militare e di forza. Chi non crede a questa strada, appare debole, se non traditore. Quando cresce la passione per le armi, le ragioni della pace sono zittite. Ma, per amore di chi soffre, rispondiamo con il Salmo 120: “Troppo io ho dimorato con chi detesta la pace. Io sono per la pace, ma quando ne parlo, essi vogliono guerra” (Ps 120, 6-7).

Cari amici indubbiamente il momento è grave, ancora più grave della pandemia, e sentiamo un senso di impotenza, sentiamo di non avere risposte, eppure si sta affermando qualcosa di nuovo: la guerra non è solo affare degli Ucraini ma è affare degli italiani, degli Europei, di tutti noi. Non è più una guerra lontana.

Papa Francesco ha una ragione sostanziale, radicale nell’aver fin dall’inizio del suo pontificato contestato il ricorso agli armamenti. Le armi producono condizioni potenziali di conflitto eppure assistiamo come a una folle rincorsa alle armi. Più vaccini, cibo,  e meno armi.

Cosa dice il Vangelo su questo? Partiamo da una frase di Gesù che noi leggiamo da Gv 14, 26 “Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non come la da il mondo, non sia turbato il vostro cuore…”: è un contesto particolare, Gesù parla ai discepoli, agli amici più intimi prima di essere messo a morte. Capisce il loro timore, sa che ci sarà violenza, (lo andranno a prendere con violenza nell’orto degli ulivi), sa che sarà processato ingiustamente, torturato e messo a morte. Ai discepoli spiega che sta andando a morire ma non come un imprevisto ma come frutto della congiura del  male perché questo, leggendo la Passione è chiarissimo: esiste una congiura del male di cui sono protagonisti tanti, compresi i discepoli che erano con il Signore. Dice: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Questo  quindi vuol dire che la pace non si possiede già, è un lascito, un dono, bisogna capirla, non è qualcosa di assodato.

Non dice “state tranquilli, cercate di stare in pace”: ma “Vi lascio la pace, vi do la mia pace” e c’è un’aggiunta immediata “Ma non come la dà il mondo”.

La pace che dà il mondo non è la stessa che Gesù dona ai suoi discepoli. La pace non è facile, è una conquista complessa o quantomeno fragile. È esattamente la nostra situazione: credevamo di stare in pace, non avevamo bisogno di cercarla, l’avevamo ereditata e l’assenza di pace non è il fatto che non è possibile riceverla, viverla. Anche perché è un dono.

Si può anche dire che la Bibbia è piena di guerre, molti dicono “Io non leggo l’Antico Testamento ma il Nuovo Testamento perché l’Antico Testamento è pieno di guerre, di sangue, di battaglie”.

È vero ma la pace è all’inizio della creazione. La sofferenza inizia nel momento in cui lo Spirito di divisione trova spazio.

Il Signore lascia l’uomo e la donna liberi ma se non si sceglie il bene si scivola facilmente verso il male. I conflitti nascono, dice la Lettera di Giacomo, “dalle passioni che sono in noi”, dai sentimenti che si coltivano, che si ritengono innocui ma così non sono. La divisione si è insinuata e poi è difficilissimo far pace perché ognuno porta le sue ragioni e diventa difficile fare incontrare perché la pace si fa cedendo sempre qualcosa di sé, qualcosa dei propri principi, delle proprie ragioni.

In ogni caso la Bibbia è lo specchio di questa storia dell’uomo fatta di violenza, di guerra, di atrocità, di torture, ma in questa storia si inserisce il Vangelo della pace che comincia con i Profeti, comincia nell’Antico Testamento, comincia con l’alleanza con Noè.

La colomba della pace è la fine del diluvio, ma il diluvio è divisione, è distruzione, è anche guerra. Quindi noi dobbiamo leggere la Scrittura come la Buona Novella della Parola di Dio dentro la storia difficile, complessa, tormentata, persino violenta, fatta di vittorie, di sconfitte e soprattutto di tragedie subite dai più deboli.

Dichiarare di principio: io sono per la pace, non sono dalla parte dell’aggressore è giustissimo, ma che cosa cambia? Che effetto ha?

Qui c’è una grande indicazione: la pace è di tutti ed è responsabilità di tutti, quindi anche dei tanti che dicono “non mi riguarda”. E nella Bibbia la pace non è l’assenza di guerra, e non solo nella Bibbia… la Lettera agli Efesini cap 2, 13-18: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo.14Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo (quello ucraino e quello russo), abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia,15annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace,16e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia.17Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Facendo la pace, quindi la pace non esiste già, bisogna farla, crearla, costruirla, mantenerla, svilupparla, trasmetterla. Quante volte nella nostra vita prevale l’inimicizia verso qualcuno e non la pace di Gesù? La questione della guerra nasce da lontano ed infatti nel Vangelo capiamo che il conflitto nasce nel cuore dell’uomo e della donna. La mano si arma se i sentimenti sono bellicosi e non vengono cambiati e cambiati continuamente. È  una questione molto delicata perché ci chiama in causa. D’altra parte il Vangelo è liberante anche per questo, perché ci mette di fronte alle nostre responsabilità ed in fondo emerge una domanda molto chiara. Che cosa abbiamo fatto in tutto questo tempo per la pace ora che ci sdegniamo giustamente per la guerra?

È  necessaria oggi, per usare una parola del Vangelo, una CONVERSIONE alla pace, e conversione voi sapete non vuol dire cambiare religione, il termine che la Scrittura usa vuol dire “volgersi verso” “voltarsi” “cambiare orientamento”, conversione vuol dire pian piano cambiare modo di pensare e cambiare abitudini e quindi modo di vivere. La conversione non è come la famosa caduta di San Paolo sulla via di Damasco da cavallo. La conversione è accettare il cambiamento, quindi ci vuole una scelta, quindi quando parlo di conversione alla pace mi pongo anch’io, personalmente, la domanda che ciascuno si può porre: “Quanto lavoro per la pace, Quanto c’è la pace al centro dei miei interessi? Cosa posso fare per la pace? Quanto mi riguarda la pace? È davvero mia?” Il fatto di capire che è un dono è molto importante; è una responsabilità, dicevo, ma è anche una grande speranza, quindi va ricevuta.

Nel Vangelo di Luca il termine pace viene proclamato dagli angeli: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini amati dal Signore” perché la pace arriva con la nascita di Gesù. Egli è la nostra pace, anzi come voi sapete, Isaia, sempre il profeta Isaia 9,5 parla di Colui che deve venire come il principe della pace. Non è una cosa banale, tutt’altro, pensiamo al Vangelo del Natale: Il principe della pace nasce e chi lo accoglie? La città lo rifiuta! è impressionante… nasce il principe della pace e non lo accoglie nessuno: la pace comincia accogliendo la sua Parola. Cosa si può fare? Si può far tanto con l’aiuto di Dio, con la sua Parola.

La Parola di Dio chiede la conversione: “Convertitevi e credete al Vangelo” (Mc 1,5). La conversione in questa quaresima è alla pace, a quel Gesù che è la nostra pace. Non è politica o morale, ma la persona stessa di Gesù, che nella Pasqua appare, dicendo: “pace a voi!”. Disarmiamo la vita e il cuore, i pensieri e le parole. La conversione è disarmo di se stessi. Bisogna smettere le piccole guerre personali, che anche se sembrano giuste o ci accompagnano. E quanto tempo della nostra vita, quanta energia si consumano intorno a questo!

I cristiani sono -diceva Clemente di Alessandria- una razza pacifica. Il cristianesimo felice e le beatitudini: “felici gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9). Felici, perché hanno imparato che mai si è felici contro gli altri, ma operando per la pace.

“Bisogna realizzare la fraternità. Bisogna lottare contro la cultura arrogante della guerra: diffondere l’amore per la pace, per la felicità e non per l’odio. La pace è una responsabilità, forse questo ci turba, perciò Gesù subito dopo dice “Non sia turbato il vostro cuore” perché lo sa benissimo, siamo tutti turbati e sarebbe strano se non lo fossimo, ma il turbamento deve bloccarci o deve metterci in movimento?

Il Vangelo è nato ignorato eppure ha conquistato i cuori ed ha permesso veramente la pace. Nelson Mandela, San Giovanni Paolo II, Gandhi, Martin Luter King… C’è bisogno di spiriti grandi, di essere grandi in questo senso assumendo insieme, non da soli, ascoltando il Vangelo della pace come prospettiva necessaria per noi e per il futuro. Dobbiamo essere grandi. Seminare pace vuol dire seminare amore e bene.

Dobbiamo diventare noi costruttori di pace, come indica il Cantico di Zaccaria: “verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte e dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc 1,79). Dobbiamo essere non pacifisti, ma pacificatori. È veramente umano un mondo senza violenza ma dove poi ci si ignora, e si vive ognuno per conto suo, magari in solitudine? Pacificatore è chi costruisce ponti, costruttore, diventa operatore di pace cercandola nell’unità tra gli uomini. Quando celebriamo diciamo: Tu che hai detto agli apostoli: Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai nostri peccati ma alla fede della tua chiesa e donale unità e pace secondo la tua volontà. La volontà di Dio è unità e pace. Le due cose camminano insieme; la pace è nell’unità non nell’individualismo. Per questo la liturgia della Domenica è una occasione di pace: fa cadere la separazione, fa incontrare, raccoglie attorno alla mensa dell’altare e della Parola. Unità e pace secondo la tua volontà.

Pace è la luce dell’amore di Dio che è nascosta in ognuno di noi che può rendere tutto “bello”. Non teniamola nascosta! Per un mondo finto, illusorio, la bellezza è finta, esibita, afferma se stessa, impossibile. Invece la bellezza di Gesù è rendere belli gli altri, e quando lo facciamo in realtà diventiamo belli anche noi.

Spesso ci interroghiamo se sapremo essere capaci di raggiungere gli obiettivi, abbiamo paura di non essere all’altezza, di non avere consensi, di non scoprire cosa ci rende felici! Ci interroghiamo sui risultati. Gli uomini cercano la gloria rubandola agli altri, nelle cose, nelle onorificenze, nelle caratteristiche esteriori, nel potere, nell’affermazione di sé, pensando che la gloria sia diventare come Dio. La gloria è nel peccato perdonato, nell’inimicizia vinta, nei fratelli che si riconciliano, nella fragilità protetta. Per conservare quella luce dobbiamo scendere con Gesù nell’amore e nella preghiera e scendere con Lui nel servizio e nell’umiltà verso il prossimo. Crisostomo dice: “Nulla ci rende simili a Dio come il fare del bene”.

La luce rende luminosi e attraenti noi e l’altro perché amati. La gloria di Gesù è abbassarsi a lavare i piedi ai suoi, donarsi spezzando il pane e versando il vino; lasciarsi inchiodare alla croce di un amore senza limiti. È quel pezzo di cielo che è nascosto dentro di noi e che Gesù rivela pienamente e che ci fa affrontare anche il buio più profondo senza perdere il cuore e con la luce nel cuore e negli occhi. È la luce che ci rende pienamente uomini della terra proprio perché del cielo.

È la luce della pace che sempre più deve rendere luminosa la nostra vita per poter rendere luminosa la vita degli altri. Unità e pace secondo la tua volontà. Che sia sempre anche la nostra volontà. San Serafino diceva: Accogli la pace dentro di te e migliaia attorno a te troveranno la pace.

Sia così per ognuno di noi.

† Giuseppe, vescovo


Ritiro del Clero

Chiesa “Santa Maria del Carmine”
Casa Madre delle Suore degli Angeli
Faicchio (BN)

10 febbraio 2022

“Preghiera e predicazione” (Luca 18,1-8)
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Gesù racconta una parabola ai discepoli sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. È un’espressione che colpisce perché spesso associamo la stanchezza all’idea di un lavoro, di una fatica manuale, e la preghiera allora non sembrerebbe qualcosa di faticoso per cui ci si possa veramente stancare, eppure proprio queste parole di Gesù illuminano in maniera particolare la nostra preghiera e il nostro pregare. Gesù dice che la preghiera è una necessità, che non se ne può fare a meno, anzi per Gesù è la strada per mantenere viva la speranza di un mondo più giusto ed umano, perché si affermi la giustizia. Allora questa parabola è anche per noi fratelli perché dobbiamo tutti imparare veramente a pregare sempre senza stancarci, e l’esempio che Gesù pone al centro della parabola, quello della povera vedova, aiuta a capire ancora meglio il senso di questa necessità. Infatti la preghiera dei discepoli non può essere mai slegata dalla vita, dal mondo in cui vivono; deve legarsi alle situazioni che incontrano, alle domande di salvezza, di guarigione, di ascolto dei tanti che si incontrano per avere nel cuore l’ambizione, il sogno di cambiare le situazioni e gli eventi della vita. Allora la povera vedova della parabola è l’immagine di una umanità che conosciamo bene; è quella delle nostre parrocchie, dei nostri territori; un’umanità anche di deboli e poveri a cui nessuno dà retta, a cui nessuno offre giustizia: sono gli anziani chiusi nelle prigioni di solitudine, i bambini di cui poco si comprende il dramma di questo tempo, dei giovani preoccupati per il loro futuro, ma anche dei profughi bloccati alle frontiere anche loro in attesa di futuro, di tante famiglie anche esse prigioniere di un futuro incerto. C’è un giudice che dovrebbe difendere quella povera donna, ma quel giudice è proprio l’immagine dell’indifferenza del nostro tempo, un tempo che non ha timore di Dio né riguardo per alcuno. È l’immagine di un’altra umanità che anche conosciamo bene, anche questa presente nelle nostre comunità parrocchiali, che non ascolta, che è attenta solo ai propri interessi, non ha tempo né voglia di sentire i problemi degli altri, e allora cosa fa la povera vedova? Non si rassegna e con insistenza si reca da quel giudice pretendendo giustizia; non si accontenta, insiste con tenacia, non si stanca di chiedere con perseveranza finché quel giudice non si decide ad ascoltare e a fare giustizia. Allora l’insistenza è la forza della preghiera e qui i discepoli allora devono scoprire la fatica, il lavoro della preghiera che ogni giorno deve calarsi, calare il proprio cuore nelle situazioni della gente, della vita degli uomini perché queste situazioni cambino. Chi si mette in ascolto della vita, chi non rinuncia ad ascoltare le domande di tanti, diventa insistente e perseverante nella preghiera. Diceva un grande mistico ebraico: la preghiera è priva di senso se non è sovversiva, se non cerca di rovesciare le piramidi di odio, di insensibilità, di menzogna; quelle forze che continuano a distruggere la promessa, la speranza. La preghiera di quella vedova sovvertì e riuscì a cambiare quel cuore iniquo ed egoista e ottenne giustizia, e questa è anche la lotta della preghiera e questa è un’altra immagine che torna nella Bibbia: la preghiera è una lotta, la lotta tra il bene e il male, tra la giustizia e l’ingiustizia, tra la pace e la guerra. In realtà tutto questo è nel cuore di ciascuno.

E allora come è facile anche per noi lasciarci cadere nella sfiducia, nella indifferenza, lasciarsi travolgere dalle ingiustizie, dalle cose del mondo, dalle nostre ansie e dimenticare la forza preghiera, quasi dubitarne. Nella preghiera non si può mai essere indifferenti. Dice Gesù: Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno alla notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Dio fa giustizia prontamente, ma cerca fede e insistenza nella preghiera perché tutti anche noi possiamo cambiare nella preghiera il nostro cuore, il cuore degli altri. E allora, quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà la fede sulla terra? Si quando il Signore tornerà e torna ogni giorno, trova fede sulla terra quando trova amore, accoglienza e una preghiera che protegge, ama e apre al futuro.

Mi diceva un anziano: con la pandemia abbiamo perso gli abbracci. E questo è vero soprattutto per quelli che non sono mai abbracciati. L’abbraccio significa comunione, si impara ricevendolo e dandolo, superando le distanze. Il Sinodo nel quale siamo appena entrati ci chiede di arrivare con un abbraccio fatto di preghiera, preoccupazioni, ascolto anche a chi è lontano e non ha la Chiesa come orizzonte personale.

La liturgia della domenica deve essere un abbraccio, deve riscaldare il cuore, con i canti, la predicazione, con il suo servizio liturgico; un abbraccio a chi si abbraccia a noi. Grazie a Dio, a parte una parentesi, celebriamo nel mezzo della pandemia. Speriamo che passi presto. La pandemia si è però un po’ depositata nell’anima di tanti. Siamo stati segnati da un’esperienza globale di malattia. La pandemia ha mostrato che il destino è comune e che ci si salva insieme: ma questa coscienza è scarsamente diffusa. Prevale anzi al contrario la coscienza del salvarsi da soli. La pandemia ci ha infragiliti, comunicando uno spirito di ripiegamento e isolamento: ha cambiato le abitudini, ma anche un po’ lo spirito. Il contagio ha spinto a un ripiegamento su di sé, proteggendosi dall’altro che poteva contaminarci. Le relazioni si sono rarefatte. Gli incontri diminuiti. Si incontra meno gente e si è meno interrogati. Si sta più a casa. Il volto dell’altro diventa più coperto e lontano con la mascherina: non si vede il sorriso. Tutto diventa cerebrale. Si lavora da casa. Questo ha talvolta reso più tesi i rapporti con i familiari. Siamo meno abituati alla socievolezza, più fissati su noi. La pandemia ha un po’ ridotto gli orizzonti.

Insomma la pandemia ha fatto emergere una cultura che stava sotto la cenere. La cultura della solitudine, ma la solitudine e l’isolamento sono rischi per la salute fisica e psicologica. È come se il mondo fosse divenuto un po’ più di vecchi, che girano intorno a sé, hanno paura, non guardano al futuro. La perdita del Noi, sconfitto dall’io, ci ha lasciati isolati e vulnerabili. Ma non è bene essere soli! C’è uno spirito della pandemia, che è quello della solitudine, che fa ammalare l’anima.

I poveri aumentano. La realtà è dura. Del resto, in tante società, c’è stato un infragilimento, dovuto alla crisi economica indotta dalla pandemia. Sono stato a Napoli nei giorni scorsi e ho trovato vari negozi chiusi, attività dismesse, i lavori più semplici -penso a quelli che lavorano nella ristorazione, per fare un esempio- si sono ridotti. Da qui il valore dell’insistenza. Cosa fare?

Nel Vangelo Gesù parla di un uomo “che non ha radice in sé ed è incostante”, quindi cambia subito quando giunge la tribolazione (mt13,21): “Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato”. Giacomo ammonisce: “non pensi di ricever qualcosa un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (Gc1,7). La preghiera della vedova ci ha parlato di insistenza, di perseveranza.

La perseveranza nell’amore e nella preghiera sposta lentamente, ma decisamente, il mondo verso il bene. C’è una direzione, quella del ritrovarsi. Giustizia è ritrovarsi, non lasciare soli nessuno. L’insistenza e la perseveranza nella preghiera, cambia. Come dice Karl Barth, grande teologo evangelico: “Dio non agisce allo stesso modo se preghiamo o se non preghiamo. C’è influenza della preghiera sull’azione, sull’esistenza di Dio”.

Con la perseveranza e la fiducia siamo passati attraverso la pandemia; con insistenza ci siamo rivolti al Signore. La liturgia della domenica per molti e per molto tempo è stata l’unica opportunità di stare con gli altri. La liturgia della domenica ci ha salvato come popolo, anche se ridotto e infragilito.

In questo mondo, deve sorgere una nuova stagione: quella di un mondo fraterno. In questo tempo del Sinodo che ci chiede di camminare insieme, vogliamo vivere con un’idea grande e concreta: realizzare la fraternità, come legame sociale nella vita delle nostre piccole città, dei borghi, tra le persone, tra tutti; realizzare legami che contrastino lo scivolamento verso l’individualismo.

Pandemia o no, questa è un’urgenza! non mettiamo tutto questo sottoterra o sotto i nostri piedi! Sono tanti talenti da impiegare per un mondo fraterno. Questa è l’urgenza di oggi: metterci al servizio di questa visione del futuro, che ha speranza di pace e fraternità, che non si rassegna -senza lottare- allo scivolamento in un mondo pessimista e rassegnato. Bisogna ridare serenità alla nostra gente.

È un’urgenza in una società di soli: uscire dalla distanza e dalla conflittualità. Bisogna ridare felicità alla nostra società, in cui il cristianesimo si fa irrilevante e intristito. Ci vuole un “cristianesimo felice”. Un cristianesimo felice, che rende felici gli altri, consapevole che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, nell’ascoltare, nell’avvicinare, più che nell’allontanare o nel prevalere. Una Chiesa sinodale che sa vivere la vicinanza e l’ascolto può aprire una stagione del cristianesimo felice, che faccia maturare ovunque la fraternità: è una necessità.

Insomma essere fermento di un cambiamento umano e sociale, religioso e fraterno. Papa Francesco, nella Fratelli tutti, ha fatto una grande proposta che non può essere abbandonata. Lo spirito della pandemia e del salvarsi da soli non può dominare dopo la pandemia. Ci vuole il contagio di un cristianesimo felice che porti alla fraternità. Se non lo facciamo o non lo comunichiamo, chi lo farà?

Cari amici, in questo percorso che quest’anno stiamo facendo insieme sulla liturgia della domenica, oggi, anche alla luce di quanto detto finora, desidero saltare alcuni punti che poi riprenderemo, per parlare del valore della predicazione, che insieme alla Parola di Dio letta e proclamata, è il vero antidoto alla pandemia spirituale che ha fatto ammalare tanti cuori.

Non sono le nostre parole, ma la Parola di Dio e l’omelia che aiutano a sollevare lo sguardo da sé per guardare avanti con fiducia, che ci rendono insistenti e perseveranti nella preghiera e nel proporre cammini nuovi alla nostra gente. Il “cammino sinodale” ci sta chiedendo in questa prima fase di vivere un tempo di ascolto. “Ascoltare” Dio che parla è per ognuno di noi il primo passo da compiere insieme, uomini che ascoltano la parola che Dio ci offre quando siamo riuniti con le nostre comunità o quando la leggiamo e meditiamo da soli. Chiamati ad ascoltare Dio che parla, per imparare ad ascoltarlo quando parla attraverso gli altri.

L’omelia è il momento nel quale la Parola di Dio è come accompagnata nelle stanze segrete del cuore dei fedeli. L’episodio dei due discepoli di Emmaus si chiude con la loro riflessione: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). La stessa cosa accadde a Maria dopo aver ascoltato le parole dell’angelo: «A queste parole rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» (Lc 1,29). E nel giorno di Pentecoste, dopo la predica di Pietro, ecco cosa avvenne: «All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore nel petto e dissero a Pietro e agli altri apostoli: che cosa dobbiamo fare fratelli?» (At 2,37).

La Parola di Dio provoca sempre un «turbamento» se è accolta con il cuore. Un turbamento che scuote dall’appiattimento. Essa colpisce le corde del cuore di chi ascolta, e suscita una domanda di conversione Per questo Paolo afferma: «fides ex auditu». La fede non nasce da fenomeni spettacolari, ma dall’ascolto del Vangelo spezzato dalla predicazione. Certo è il Signore che dona la fede, ma, il momento del dono, è quando il cuore ascolta. Così scrive l’Apocalisse: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). I due discepoli di Emmaus «non vedevano» Gesù, ascoltavano solo la sua voce, e mentre continuava la spiegazione sentivano il loro cuore scaldarsi. Ecco perché l’omelia possiamo collocarla all’origine stessa della fede.

A noi è chiesto di prepararla con cura. L’omelia ha bisogno di una gestazione fatta di preghiera, di studio, di affetto, di familiarità con la Scrittura e di conoscenza della gente. Non può pertanto essere standard e uguale per tutti o essere la stessa degli anni precedenti. C’è uno stretto rapporto tra la Scrittura e il popolo a cui è rivolta. Chi predica deve cogliere questo rapporto. San Gregorio Magno, vescovo a Roma nel VI secolo e grande studioso delle Scritture, confessa che più volte, leggendo e rileggendo un testo biblico, non era riuscito ad afferrarne il senso, ma “messo davanti ai fratelli l’ho capito”. Tenere l’omelia è una grandissima responsabilità. Sant’Agostino, mettendosi dalla parte dell’ascoltatore, diceva: “Se non mi rendi migliore di quello che ero, perché mi parli?”. Durante la settimana si ascoltano tante parole. Nella liturgia è Dio che parla. La sua Parola è una fonte di sapienza e di umanità. C’è bisogno di questo tempo di ascolto in un mondo in cui spesso non ci si ascolta più. Nella nostra società in cui è diventato raro sedersi gli uni accanto agli altri per ascoltarsi, e in cui è difficile persino per i membri della stessa famiglia sedersi con calma per parlare, la liturgia è lo spazio in cui  ascoltare Dio con tranquillità e con calma. Con l’ascolto di Dio inizia il colloquio più importante della vita.

C’è una soglia della nostra coscienza che può essere oltrepassata solo dal Signore che ci parla attraverso la predicazione. Il giovane Samuele disse: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3,11). Cari amici, non c’è omelia nella quale il Signore non ci dica qualcosa. È ovvio che questo comporta un clima, anche esterno, di silenzio e di raccoglimento. Nessuna parola deve andare perduta.

Domenica scorsa (6 febbraio) il Vangelo di Luca diceva che la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio. Quella folla non cercava Gesù per avere guarigioni, ma per ascoltare la parola di Dio. Le nostre parole, dette o scritte, sono portatrici della saggezza della parola Dio o sono solo espressione del nostro io, delle nostre convinzioni e abitudini? Quale visione abbiamo della nostra esistenza e del mondo? Le nostre parole manifestano sentimenti, pensieri, percorsi diversi da quelli del mondo?

Nel libro di Neemia al cap. 8 si parla di quando il popolo “come un sol uomo” si radunò sulla piazza davanti alla porta delle Acque che conduceva al Tempio. Il Libro della Legge di Mosè, cioè la Parola di Dio, tornava tra la gente, davanti all’assemblea “degli uomini, delle donne e di quanti potevano intendere”. Una festa grande, di tutti, piena di gratitudine perché il Libro tornava alla presenza di tutto il popolo. Era passato il tempo dell’esilio e della dispersione, in cui l’assemblea non si riuniva. Fino ad allora la Parola esisteva ma non era per tutti, non veniva letta e commentata nell’assemblea. Non erano più abituati ad ascoltarla insieme, come popolo. Quel giorno fu di gratitudine e di stupore. Il popolo era finalmente riunito. La Parola fa l’unità del popolo. Dice Neemia: “Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni e a esultare con grande gioia, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate”. È il senso di una festa piena di gioia, in cui a tutti è dato da mangiare. È la vera festa che vuole il Signore: laddove la Parola è compresa, c’è gioia grande e il pane è distribuito a tutti, nessuno escluso. Questa deve essere la festa della nostra liturgia della Domenica: gioia e gratitudine per aver ricevuto e compreso la Parola di Dio non da soli, ma insieme e per aver imparato che tutti sono nostri fratelli con cui condividere il pane dell’amicizia e del dono. E che possiamo finalmente ricominciare.

† Giuseppe, vescovo


Ritiro del Clero

Chiesa “S. Maria del Carmine”
Casa Madre delle Suore degli Angeli
Faicchio (BN)

13 gennaio 2022

“L’assemblea che celebra”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Cari fratelli,

“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”, è stato il Vangelo di questo lunedì del tempo ordinario. A Natale è venuto il tempo di Dio, Dio si è fatto vicino, è entrato nella storia degli uomini, e non resta a guardare, è parte attiva, è presente, ci parla, e per ascoltarlo dobbiamo fare silenzio, dentro e fuori di noi, ci chiama a seguirlo, ci ha già scelti per una missione importante, il sacerdozio, chiede ad ognuno di aiutarlo nella sua opera di salvezza, di misericordia e di compassione. Con la nascita di Gesù nella terra degli uomini, tutto è possibile, soprattutto tutto può cambiare. Tutto, dice San Paolo, possiamo in lui che ci dà forza. Erode vuole spegnere la luce, uccidere la speranza, fa sentire importanti, ma in realtà ci usa e quando non serviamo più ci butta via, testimone di quell’individualismo che insegna solo il “salva te stesso”. Natale è un dono di Dio alla nostra vita e l’Epifania di Gesù è esattamente il contrario della pandemia: è la salvezza che si mostra, la presenza di Dio per tutti, tutti amati. Nessuno deve essere lasciato solo, guardato con diffidenza o addirittura pregiudizio o dimenticato. Le pandemie, in realtà, sono tante, le pandemie della violenza, della fame, della guerra, della mancanza di lavoro, rivelano quanto in realtà siamo tutti fragili e bisognosi gli uni degli altri.

Dio è con noi perché vuole curare le nostre ferite, e, come per i Magi, facendoci trovare quello che cerchiamo nel profondo. Come i magi, ognuno di noi in un determinato giorno e anno, ha fatto dono al Signore della sua vita, ha lasciato quello che aveva di più prezioso, i suoi doni, ed è ripartito con quello che conta per davvero, ricco di Gesù, della sua vocazione al sacerdozio che è come una luce che rende luminosi, pieni di amore da trasmettere, da donare a chi incontriamo.

Gesù ci insegna a pensarci insieme, senza avere paura di perdere qualcosa. Siamo chiamati tutti a diventare con Gesù fratelli universali, che in tutti vedono il fratello, ad iniziare dai più poveri, che sanno essere luminosi per tanti che sono nel buio, speranza per chi è nella sofferenza, consolazione di vita vera per tutti gli uomini cercatori di vita vera.

Non mettiamo subito da parte il Natale, come scontato, come una festa ormai passata in attesa di altre feste! Questo Natale ha una particolarità: è venuto nelle nebbie del Covid per dirci che con Gesù è possibile l’inizio di un tempo nuovo. È nato Colui che insegna a chiamare Dio con il nome di Abbà, Padre. Nessuno è più orfano, ma figli, parte della sua famiglia, fratelli tra di noi, amici dei poveri, stretti nella comunione della Chiesa, uniti in una fraternità senza confini. Con Gesù, siamo “fratelli tutti” con i vicini e i lontani, con chi ci è noto e chi non conosciamo.

Nei lunghi mesi della pandemia, parecchie persone si sono ritratte dal contatto con gli altri, per timore del contagio o per un’abitudine sociale.

Aiutiamo gli altri a riscoprire la bellezza ed il senso dello stare insieme. Ripartiamo dalla liturgia della Domenica, dove la famiglia si raccoglie per celebrare. La Liturgia Eucaristica – è bene ripeterlo – è il cuore della Domenica perché è il momento privilegiato per costruire la “famiglia di Dio”: sconfigge l’egocentrismo e la dispersione che segnano profondamente le nostre persone e l’intera società.

La comunità che celebra l’Eucarestia domenicale, per piccola e povera che essa sia, diviene il corpo di Cristo e quindi vive con le dimensioni di Cristo.

Il vero soggetto della celebrazione è sempre l’assemblea dei fedeli”, hanno scritto i vescovi italiani. Se è vero, come abbiamo detto la volta scorsa, che è l’Eucarestia che fa (ossia costruisce) la Chiesa, dobbiamo anche dire che è la Chiesa che fa (ossia che celebra) l’Eucarestia. Per celebrare la Messa è necessario che ci sia la Chiesa, la comunità cristiana, non importa se piccola o grande. Senza la comunità non c’è Eucaristia. Queste affermazioni potrebbero ancora stupire chi pensa che in chiesa è il sacerdote che celebra, mentre i fedeli assistono. In verità, con il Battesimo tutti siamo divenuti un popolo sacerdotale che rende culto al Signore. Il Concilio Vaticano II ha sottolineato il “sacerdozio battesimale” di tutti i credenti. Questo sacerdozio comune si esprime anzitutto nelle assemblee liturgiche. Tutti i credenti sono chiamati a celebrare la Liturgia Eucaristica. Si chiama Liturgia, appunto perché è opera di tutto il popolo. I cristiani laici, perciò, hanno il diritto-dovere di partecipare alla Messa domenicale a motivo del loro Battesimo, e non certo per un senso del dovere o per “aiutare il parroco”.

La comunità cristiana è, quindi, una comunità tutta sacerdotale: i cristiani, incorporati a Cristo nel Battesimo, sono partecipi dell’unzione sacerdotale con la quale Cristo fu consacrato dalla forza dello Spirito Santo. Il Vaticano II, nella Lumen Gentium, parla di sacerdozio dei fedeli (chiamato “sacerdozio comune”) perché comunicato a tutti i cristiani attraverso il Battesimo, e lo intende in senso reale, non simbolico. Con Gesù termina la concezione veterotestamentaria del sacerdote come mediatore tra Dio e il suo popolo. Gesù, morendo, ha squarciato “il velo del tempio da cima a fondo” (Mt 27,51), e tutti i discepoli di Gesù hanno accesso diretto a Dio. Tutti lo possono chiamare “abbà”, “papà”. Ecco perché il santo vescovo Giovanni Crisostomo, rivolgendosi ai fedeli di Costantinopoli, diceva loro: “Anche tu, anche tu sei stato fatto re, sacerdote e profeta nel fonte battesimale”.

Sempre la Messa è stata una celebrazione della comunità, anche se a volte è stato poco evidenziata: ‘Pregate fratelli e sorelle, perché il mio ed il vostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre Onnipotente”. È chiaro, da queste parole, che il sacrificio posto sull’ altare dal sacerdote viene offerto in modo generale dalla famiglia tutta intera”.

Non c’è dubbio che l’assemblea liturgica domenicale resta il luogo dove la comunione che il Signore dona ai suoi figli appare nel modo più evidente. Una comunione di cui dobbiamo avere cura perché cresca. Ed i vescovi italiani sentono il dovere di sottolineare la dimensione ecclesiale della Messa: “Tutta la ricchezza dei ministeri e i diversi compiti dei ministri non dovranno far dimenticare che il vero soggetto della celebrazione è sempre l’assemblea dei fedeli……”. E aggiungono: “Un’attenzione particolare dovrà essere dedicata a quei fedeli che collaborano all’animazione e al servizio delle assemblee. Consapevoli di svolgere un ‘vero ministero liturgico’, è necessario che essi prestino la loro opera con competenza e con interiore adesione a ciò che fanno. Nell’esercizio del loro ministero essi sono ‘segni’ della presenza del Signore in mezzo al suo popolo” .

La frase di Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me” trova nella Eucaristia domenicale la sua più alta espressione. Questo sta a dire che “il protagonista” delle nostre assemblee liturgiche è il Signore Gesù. E solo lui. È lui che convoca, che parla, che offre, che trasforma i nostri cuori e ci plasma come suo corpo. È lui che dobbiamo servire. Tutti coloro che sono radunati per la Celebrazione Eucaristica, nella povertà e nella indegnità di ciascuno, sono però trasformati nel Corpo di Cristo. È il mistero della grazia del Signore che ci trasforma in “pietre vive” per l’edificazione della sua Chiesa. Non sono i meriti di ciascuno di noi che, assommati l’uno accanto all’altro, fanno la Chiesa. È il Signore che raccoglie la nostra pochezza e la trasforma nel suo Corpo, rendendoci così partecipi della comunione con il Padre e lo Spirito Santo.

Nessuno, pertanto, è semplice spettatore. Tutti concelebrano. Grande rilievo assumono i dialoghi tra il sacerdote celebrante e l’assemblea dei fedeli e le acclamazioni. Infatti questi elementi non sono soltanto segni esteriori della celebrazione comunitaria, ma favoriscono e realizzano la comunione tra sacerdote e popolo, per l’offerta che fanno insieme al Signore: sono soprattutto l’atto penitenziale, la professione di fede, la preghiera dei fedeli e la preghiera del Signore, cioè il Padre nostro”. Vi sono poi altre parti proprie dell’assemblea che nessun presidente o ministro o coro o cantore può “espropriare”. Esse vanno lasciate alla comunità celebrante, perché le svolga in prima persona, come segno chiaro della propria partecipazione: il Gloria, il salmo responsoriale, l’Alleluia, il Santo, l’acclamazione dell’anamnesi: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”, l’Agnello di Dio, il canto dopo la comunione.

La Liturgia Eucaristica della Domenica, per il carattere comunitario che la contraddistingue, e soprattutto per il mistero che celebra, richiede sia un particolare atteggiamento interiore che esteriore. Il vescovo del III secolo, Cipriano, scriveva così ai suoi fedeli: “Coloro che pregano… pensino di trovarsi alla presenza di Dio. Dobbiamo piacere agli occhi suoi anche nell’atteggiamento del corpo e nel tono della voce. Una persona senza educazione di solito grida; al contrario, una che sia discreta deve pregare con un tono basso di voce. Quando ci raduniamo insieme… dobbiamo evitare di disperdere le nostre preghiere con voci confuse e di rivolgere con tumultuosa loquacità le domande che dobbiamo elevare a Dio con umiltà”. E il teologo Origene (III secolo) aggiungeva: “Mi pare non sia fuori luogo, … trattare brevemente della disposizione e del contegno che deve avere chi prega: la disposizione va riferita all’anima, il contegno al corpo”.

I gesti (stare in piedi, inginocchiarsi, stare seduti, inchinarsi, battersi il petto, il segno della croce), durante la celebrazione liturgica, non sono una dimensione secondaria. Essi, manifestano l’atteggiamento del cuore, ma coinvolgono il nostro corpo. Così pure è determinate il clima di silenzio che deve circondare tutta la Liturgia Eucaristica. Mi riferisco anche ai necessari momenti di silenzio che debbono esserci durante la Messa. Soprattutto parlo di quel clima di silenzio dato dalla sospensione sia del rumore fisico che del rumore interiore. Ambedue questi rumori, originati dalle nostre distrazioni e dal nostro egocentrismo, non ci rendono attenti né al mistero di Dio né al rispetto degli altri, i quali hanno bisogno di un clima di raccoglimento. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, si va dal modo di entrare in chiesa senza fare attenzione al rumore dei propri passi, al chiacchiericcio del fondo, alla grossolanità del gesticolare, e così oltre. Tutto ciò richiede una sensibilità spirituale e una delicatezza nei confronti degli altri. Ripeto, si tratta di qualcosa da costruire. È ovvio che non saremo capaci di silenzio fisico se non apprenderemo il silenzio interiore; ma è anche vero che se saremo attenti al silenzio esteriore apprenderemo anche quello del cuore.

Cari amici, il discorso sull’assemblea che celebra, non è anche un discorso sulla sinodalità?

Papa Francesco, nel discorso rivolto il 18 settembre del 2021 ai fedeli della diocesi di Roma si è soffermato sul processo sinodale e ha sottolineato che “il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri”. La sinodalità esprime “la natura della Chiesa, la sua forma, il suo stile, la sua missione”. In questo discorso Francesco pone anche una domanda: “I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi che la società scarta, sono parte del Sinodo?“Sì, non lo dico io – spiega il Pontefice – lo dice il Signore: sono parte della Chiesa”“Al punto tale che se tu non li chiami – si vedrà il modo – o se non vai da loro per stare un po’ con loro, per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il Sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. Il Sinodo è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie”.

Come si coniuga la sinodalità con il ministero gerarchico?

Papa Francesco ricorda che “il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. “Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire”. Il cammino sinodale – sottolinea il Pontefice – inizia ascoltando il Popolo”. E prosegue “ascoltando i Pastori e “culmina nell’ascolto del Vescovo di Roma”. “La sinodalità, afferma ancora Francesco, ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”. Che non è verticistico, ma piramidale al contrario.

Quali passi compiere insieme? “Come si realizza oggi, a diversi livelli (da quello locale a quello universale) quel “camminare insieme” che permette alla Chiesa di annunciare il Vangelo, conformemente alla missione che le è stata affidata; e quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere come Chiesa sinodale?”.

Credo personalmente che camminare insieme al nostro popolo, nasca soprattutto dal celebrare insieme al nostro popolo, come celebrare insieme ci aiuta a dare corpo al nostro camminare insieme. È una visione di Chiesa, meno clericale, più fedele al Vaticano II.

Ripartiamo allora con il Cammino Sinodale. A cerchi concentrici partiamo, compatibilmente con il tempo che stiamo vivendo, dai nostri consigli pastorali per poi continuare come il Sinodo prevede andando incontro a tutti, vivendo la liturgia della Domenica come il volto bello della Chiesa Sinodale.

† Giuseppe, vescovo


Ritiro del Clero

Santuario “Maria SS. delle Grazie”
Cerreto Sannita (BN)

16 dicembre 2021

La Domenica, il giorno che salva”
Meditazione di S.E.R. Mons. Giuseppe Mazzafaro

Cari fratelli, ci ritroviamo per il nostro ritiro mensile che ci raccoglie ai piedi del Signore, presente nella Santa Eucarestia. È lo stesso Signore che ci prepariamo ad accogliere in questo nuovo Natale che il Signore ci dona di vivere. Un Natale purtroppo ancora segnato dalla pandemia, che tanto smarrimento e incertezza sta seminando nel cuore di tutti. Il Natale cristiano resta però una buona notizia, forse l’unica in questo tempo: il mondo non è abbandonato a se stesso, il Signore viene ad abitare in questo mondo. Se tu squarciassi i cieli e scendessi diceva il profeta Isaia. Se tu squarciassi i cieli e scendessi”! Dio viene per insegnare di nuovo agli uomini la via della giustizia e della pace, viene per perdonare e donare misericordia. Dio ama gli uomini e non li abbandona! Bisogna essere pronti. Non verrà in modo da imporsi, in modo da costringere gli uomini annullando il dono della libertà che ha loro donato. Egli viene, ma chi se ne accorge? Gesù viene; Non ci porterà la soluzione ai nostri problemi, ma la forza dell’amore di Dio che non rinuncia a combattere, a sperare, ad amare; ad aiutare gli uomini a lottare e costruire un mondo migliore a partire dal cambiare se stessi, dal ricostruire un tessuto umano di famiglia sfilacciato e logoro dove i fili più che essere intrecciati sembrano essere separati gli uni dagli altri. La liturgia della domenica è il luogo privilegiato dove ritrovare il senso del nostro vivere insieme. Cari fratelli, nella sua meditazione il nostro caro Don Franco, la volta scorsa, diceva: “…Ci auguriamo che la celebrazione eucaristica diventi sempre meno rito, sempre più esperienza di accoglienza, di rivelazione del Dio con noi, di misericordia, di rinascita, di festa gioiosa della comunità che, finalmente, nella gioia di stare insieme, incontra il suo Signore risorto.

Cari amici, lo sappiamo, la celebrazione della messa domenicale è stata messa a dura prova dalla diffusione del Covid-19 e dalle necessarie limitazioni per contenerla. La liturgia, “sospesa” durante il lungo periodo di confinamento, e le difficoltà della successiva ripresa, anche quelle attuali, hanno confermato quanto già si riscontrava nelle assemblee domenicali, allarmante indizio della fase avanzata del cambiamento d’epoca. È evidente come nella vita delle persone sia mutata la percezione del tempo e, di conseguenza, della stessa domenica, con ricadute sul modo di sentirsi comunità, popolo, famiglia, popolo di Dio. In questi nostri ultimi anni la domenica si è andata svuotando progressivamente del suo contenuto religioso cultuale. Anche linguisticamente si è passati da “il giorno del Signore” al “week-end”: da “il primo giorno dopo il sabato” al “fine settimana”. La cultura, la civiltà contemporanea hanno trasformato la domenica in un giorno non di riposo, ma di accelerazione. È nata addirittura l’industria del tempo libero, che programma tutto: come, con chi, dove far festa, offrendo divertimenti che distraggono, ma non aiutano a cambiare il cuore. Anche molti cristiani, vivono la domenica senza alcun riferimento religioso, trascurando con grande superficialità e indifferenza la stessa festa della fede che è l’Eucarestia.

I centri commerciali sono diventati le nuove cattedrali dove riunirsi e, se sono una vera oasi per le famiglie, rendono più difficile che in altre epoche la celebrazione cristiana della domenica. E neppure il riposo domenicale favorisce una domenica cristiana poiché per molti giovani esso è tempo di frenetica evasione notturna, mentre per molti adulti è tempo di fuga, di evasione, cosicché molto spesso, alla fine, si è più stanchi di quando il fine settimana è iniziato.

Sotto il profilo pastorale è necessaria una riflessione sul senso cristiano della domenica, giorno del Signore risorto.

Non la Chiesa ha creato la domenica: essa l’ha ricevuta come dono dal Signore. La domenica è nata, infatti, dalla Risurrezione! È la Pasqua settimanale.

Uno dei più gravi errori del nostro tempo è il distacco tra la vita e la fede: fede che si fa consistere esclusivamente in atti di culto e in alcuni doveri morali» (GS 43). Se già nel Vecchio Testamento Dio rimproverava il popolo « che lo onorava con le labbra, mentre il suo cuore restava lontano da Lui» (Is 29, 13), con il Nuovo Testamento il legame tra il culto cristiano centrato sull’Eucarestia, e la vita appare più stretto. Infatti il sacrificio eucaristico è non solo un atto di fede, ma anche una espressione di carità, ed è, nello stesso tempo, la sorgente da cui sgorga questa carità».

I cristiani, fin dall’inizio, hanno celebrato la Domenica. Scrive il Vaticano II: “Secondo la tradizione apostolica, che ha origine dal giorno stesso della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che chiama giustamente giorno del Signore o domenica” (Sacr. Concilium, 106). E San Girolamo affermava: «La domenica è il giorno dei cristiani, è il nostro giorno». In effetti, la Domenica li distingueva dagli altri: solo i discepoli di Gesù ricordavano la Pasqua di risurrezione. Ecco perché dicevano: «Non possiamo vivere senza la domenica», ossia: non possiamo vivere senza fare memoria della Pasqua.

Così i primi cristiani vivevano la Domenica. Era una scelta che sentivano decisiva, anche se comportava problemi. Alcuni, per questo, affrontarono persino il martirio. Ad Abitene (una cittadina dell’odierna Tunisia), nel 304, venne arrestato un gruppo di cristiani. Di fronte al proconsole che li accusava di riunirsi illecitamente, Saturnino, uno di loro, rispose: “Noi dobbiamo celebrare il giorno del Signore: è la nostra legge”. Dopo di lui fu interrogato il proprietario della casa, di nome Emerito. Il proconsole gli chiese: “Ci sono state riunioni proibite a casa tua?”. “Si, abbiamo celebrato il giorno del Signore”, rispose Emerito. “Perché hai permesso loro di entrare?”  chiese il proconsole. Ed Emerito rispose: “Sono fratelli e io non potevo impedirlo”. “Avresti dovuto farlo”, replicò il proconsole. Ed Emerito affermò: “Non potevo farlo, perché noi non possiamo vivere senza celebrare la cena del Signore”. E vennero condannati a morte: furono martiri della domenica.

Giovanni Paolo II: “In molte regioni i cristiani sono, o stanno diventando, un “piccolo gregge”.

La Domenica resta il giorno della Chiesa, il giorno dell’identità dei cristiani.

La sapienza di Israele insegnava: «Non è Israele che ha salvato il Sabato, ma il Sabato che ha salvato Israele». Con la Domenica il Vangelo chiama i cristiani a uscire dalla mentalità individualista ed egocentrica di questo mondo per vivere un tempo di interiorità, di comunione fraterna, di fraternità nel Signore. Tutto ciò non è scontato; richiede anzi una scelta e un’educazione di noi stessi.

Cuore della Domenica è la celebrazione della Eucarestia, momento in cui i cristiani incontrano Gesù risorto. La Messa domenicale è la nostra Emmaus. L’episodio narratoci da Luca descrive le due parti fondamentali della Messa: la liturgia della Parola e la liturgia della Cena.

L’Evangelista nel capitolo 24 narra il giorno di Pasqua. Luca racconta il lungo incontro del Risorto con due semplici discepoli. I due, infatti, sono del tutto sconosciuti (di uno non si sa neppure il nome e l’altro, di nome, Cleopa, non appare mai nel Vangelo). Perché Luca ha composto così il capitolo che narra il giorno centrale del cristianesimo? Non sarebbe stato più logico mostrare l’incontro di Gesù con la comunità? Non credo che andiamo lontano dalla verità se diciamo che l’evangelista, in quei due vede rappresentati tutti i cristiani di ogni tempo. È a dire che i cristiani, di ieri e di oggi, incontrano il Risorto allo stesso modo dei due di Emmaus: ossia ascoltando le Scritture e spezzando il pane. Celebrando quindi la Liturgia Eucaristica. Ogni volta perciò che si celebra la Messa, Gesù in persona torna in mezzo ai discepoli radunati, li trova anche delusi e scoraggiati, parla con loro, li ascolta e spezza il pane con loro. Sì, l’Eucarestia domenicale realizza Emmaus. Anche noi, come i due discepoli, spesso non comprendiamo il mistero di questo straniero che si avvicina e ci parla. Quante volte la Messa ci è “straniera”! Succede quando ne facciamo un rito da ripetere a volte anche stancamente.  Eppure la Messa torna fedelmente ogni Domenica per radunare un popolo disperso. Torna anche quando noi siamo lontani con il cuore. Ma se vogliamo incontrare il Risorto è l’unica via. Viviamola sempre con amore, facciamone il momento centrale della vita di comunità perché ognuno, man mano, si senta scaldare il cuore nel petto e, nello “spezzare il pane” tutti possiamo “gioire al vedere il Signore”.

L’Eucarestia della Domenica non è una delle attività che la Chiesa compie, ma è la Chiesa nel suo senso più pieno. Tutto, pertanto, nell’Eucaristia domenicale (parole, gesti, luogo, canti…) deve concorrere per realizzare l’incontro con Gesù risorto, tutto deve manifestare la festa che si celebra. In tal senso, la Liturgia Eucaristica si pone su un piano del tutto diverso da quello di una fredda ripetizione di gesti esteriori; non può essere un momento freddo, asettico, astratto; non è neppure il momento della istruzione, della catechesi, delle spiegazioni. La Liturgia non è il luogo ove spiegare, ma il luogo dove si celebra il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore. Per questo la Messa domenicale non è semplicemente una “ricarica”, ma è “il culmine e la fonte” della vita cristiana, anzi il “culmine” della storia, come recita il Vaticano II.

La Liturgia Eucaristica è, perciò, lontanissima dall’essere il luogo del protagonismo dei partecipanti o dei ministri, e tanto meno il momento in cui fare mostra delle proprie abilità. La Messa è Santa. È come il “roveto ardente” dell’Oreb. Mosè dovette togliersi i sandali per avvicinarsi. Quando celebriamo, siamo alla presenza di Dio e partecipiamo alla comunione della Trinità e alla festa del cielo. Nessuno è protagonista, perché l’unico vero protagonista è il Signore che si offre sull’altare per noi. Tutti, a cominciare dal sacerdote, ministro dell’altare, sono servitori e non padroni. Purtroppo talvolta si può creare una mentalità da padroni. C’è chi si sente padrone della chiesa, altri della sacrestia o dell’amministrazione, alcuni della statua del patrono, altri ancora dei vari momenti di preghiera, come le feste e le processioni. È necessario ricordare che se perdiamo lo spirito di servizio rischiamo di rendere la casa di Dio non un luogo di preghiera, ma, come ebbe a dire Gesù nel cortile del tempio di Gerusalemme, una “covo di ladri” (Mt 21,13), composto di gente che non serve il Signore, ma utilizza la sua casa per affermare se stessa o per impossessarsene.

Anche dopo aver preparato la mensa del Signore rimaniamo tutti “servi inutili”, uomini e donne chiamati a rendere lode a Dio. Un giorno i discepoli chiesero a Gesù di “accrescere la loro fede”. Il Maestro rispose: “Se aveste fede come un granello di senapa, potreste dire a questo gelso «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»” (Lc 17,6-10).

Tutti, quando in modi diversi animano o partecipano alla Liturgia, sono al servizio della mensa del Signore. C’è chi prepara la chiesa, altri l’altare, altri si dedicano al servizio liturgico o al canto, ricordando che nessun servizio è a vita. Così, insieme a noi sacerdoti rendono bella e gioiosa la celebrazione. Infatti la Messa della Domenica deve esprimere la gioia e la festa di una Comunità che si raccoglie attorno al Signore.

La Liturgia Eucaristica va preparata bene. Anticamente il sacerdote prima di iniziare la Messa doveva recitare delle preghiere che lo disponevano a una celebrazione degna. Oggi si arriva molte volte affannati, ci si prepara in fretta, si decidono i compiti da assegnare all’ultimo momento, si comincia la Liturgia quasi senza uno stacco dalle consuete faccende in cui ciascuno è impegnato. La sciatteria e la consuetudine spesso impediscono una bella celebrazione, degna del momento più alto della presenza del Signore in mezzo a noi.

Un grande vescovo orientale lamentava: «Credetemi, la maggior parte dei nostri fedeli… non avvertono lo stupore meravigliato del soprannaturale – pensiamo all’esclamazione di Pietro di fronte al Cristo trasfigurato: ‘Signore è bello per noi stare qui!’ – Ahimè! Nelle nostre chiese regnano così sovente un pietismo individuale o atteggiamenti abitudinari. Eppure il dramma della vita, della sofferenza, della morte, dell’amore più forte della morte si svolge proprio qui, nella chiesa, quando lo Spirito ci rappresenta la Pasqua di Nostro Signore. Tutto è lì, tutto».

Eppure, continua il santo vescovo, i fedeli e, spesso, anche i sacerdoti, se ne stanno estranei al dramma di Gesù che si svolge davanti a loro, pessimisti e tristi nel cuore.

Insomma, solo se la vita evangelica è bella, può essere attraente, Il cristianesimo non è una chiamata al sacrificio, bensì alla bellezza dell’amore che non di rado richiede anche sacrificio. E questo deve apparire con particolare evidenza nella Eucaristia della Domenica.

Il Vaticano II ci ricorda che Dio ha voluto salvare gli uomini non singolarmente, ma raccogliendoli in un popolo. Ebbene, l’Eucarestia domenicale è il principale «cantiere» ove si costruisce questo popolo, è il momento più alto in cui gente dispersa viene raccolta per formare l’unica la famiglia di Dio. San Tommaso, con una bella espressione, dice che l’Eucarestia è il sacramento “quo ecclesia fabricatur”, appunto, il “cantiere” dove si fabbrica la Chiesa, dove si edifica il “popolo di Dio”. È l’Eucaristia che fa la Chiesa, e la “fa” con particolare evidenza nel giorno del Signore. La messa raccoglie i diversi “io” in un “noi” mistico. La Liturgia Eucaristica domenicale “costruisce” la comunità cristiana, la parrocchia. E la edifica non come un ghetto, come un gruppo di persone chiuso in se stesso, ma come immagine della Trinità, comunione piena di amore che non conosce confini. Per questo la scelta di rendere la Messa della Domenica il momento centrale della vita della comunità cristiana è opportuno. Certo non esaurisce né la ricchezza della Liturgia della Chiesa (basti pensare alle celebrazioni dei diversi Sacramenti e alla Liturgia delle Ore), né la molteplicità delle altre forme di preghiera. Ma senza dubbio la Messa della Domenica qualifica la vita di una comunità cristiana. Da come vive la Liturgia Eucaristica della Domenica si comprende la qualità evangelica di una comunità.

Facciamoci servitori della presenza del Signore nella Liturgia! Dobbiamo  abbandonare i tratti della fredda ritualità, ancora molto presenti nelle nostre celebrazioni, e recuperare tutta la ricchezza e la forza del linguaggio liturgico attraverso i canti, i gesti, l’incenso, la proclamazione della parola di Dio, il calore umano dell’assemblea… La Liturgia Eucaristica – è bene ripeterlo – è il cuore della Domenica perché è il momento privilegiato per costruire la “famiglia di Dio”: sconfigge l’egocentrismo e la dispersione che segnano profondamente le nostre persone e l’intera società.

La comunità che celebra l’Eucarestia domenicale, per piccola e povera che essa sia, diviene il corpo di Cristo e quindi vive con le dimensioni di Cristo. La Messa, perciò, spalanca le porte del mondo alla comunità cristiana.

C’è un’importanza missionaria della Messa della Domenica.

I vescovi italiani hanno scritto: “La celebrazione eucaristica domenicale… dovrà essere condotta a far crescere i fedeli, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con animo aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti”. Non mi fermo qui a trattare esplicitamente della Messa quotidiana, che per tanti è qualcosa di molto prezioso.

C’è una dimensione missionaria, insita nella Messa domenicale, che è importante ricordare. La comunità cristiana, celebrando l’Eucarestia, si unisce a Gesù che va a morire per tutti, che prende su di sé le gioie, le speranze e i dolori del mondo intero. Per questo, la comunità (come ogni singolo credente) non può restare dimentica dei fratelli e del mondo. Il “sacrificio” della Domenica, se è Eucaristico, non può non continuare tutti i giorni. L’apostolo Paolo esortava così i cristiani di Roma: “Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12, 1).

Cari amici, “L’altare si trova ovunque, a ogni angolo di strada, in ogni piazza”, scriveva san Giovanni Crisostomo, legando appunto la Messa della Domenica alla vita di ogni giorno. La conseguenza è vivere e comportarsi come Gesù viveva e si comportava: là dove ci sono le tenebre essere luce; là dove c’è sofferenza, compassione; là dove c’è tristezza e angoscia, consolazione e speranza. La Liturgia Eucaristica domenicale ci mostra di che qualità è l’amore di Dio: un amore assolutamente esagerato che travalica ogni ragionevolezza. Scrive l’apostolo Paolo: “A stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto…ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7). L’amore di Dio fa “uscire da sé”, come fece “uscire fuori di sé” Dio stesso, che: “ha tanto amato gli uomini da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16). Il Natale è Dio che esce da se stesso per venire incontro agli uomini. Dio si fa missionario per la nostra salvezza.

Dice Papa Francesco: «È la messa, dunque, che fa la domenica cristiana! E a chi dice non serve andare a messa, nemmeno la domenica, perché l’importante è vivere bene, amare il prossimo, Papa Bergoglio risponde: «È vero che la qualità della vita cristiana si misura dalla capacità di amare», ma «come possiamo praticare il Vangelo senza attingere l’energia necessaria per farlo, una domenica dopo l’altra, alla fonte inesauribile dell’Eucaristia? Non andiamo a messa per dare qualcosa a Dio, ma per ricevere da Lui ciò di cui abbiamo davvero bisogno».

Cari amici, la domenica, privata del suo significato originario, privata dello spazio adeguato alla preghiera, al riposo, alla comunione e alla gioia, renderà «l’uomo chiuso in un orizzonte tanto ristretto da non consentirgli più di vedere il “cielo”. Allora, per quanto vestito a festa, diventerà intimamente incapace di “far festa”. E senza la dimensione della festa la speranza non troverebbe una casa dove abitare ed il Natale stesso diventerebbe un Natale senza Gesù.

Signore Gesù, quale grande amore e fiducia hai avuto verso di noi da affidarci te stesso, dal metterti nelle nostre mani. Donaci di essere fedeli dispensatori dei tuoi misteri; di non accontentarci mai di quanto viviamo perché in questo mondo di gente sola e preoccupata solo di se stessa, possiamo, insieme a Te, realizzare e vivere la Chiesa, famiglia umana costruita nel Tuo nome, nutrita dalla Tua Parola, resa forte dal tuo Santo Spirito.

Benedici la Chiesa di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti, questa casa bella dove ci hai chiamato a vivere la nostra vocazione di sacerdoti.


Ritiro del Clero

Santuario “Maria SS. delle Grazie”
Cerreto Sannita (BN)

12 novembre 2021

“Dare inizio al nostro rinnovamento”
Meditazione di don Franco PEZONE

 È veramente urgente e fondamentale la nostra conversione per mettere in pratica il vangelo che abbiamo ascoltato: solo la nostra testimonianza di comunione e di unità in Cristo può generare la fede nelle persone.

 

Le difficoltà del momento presente.

  1. Da questa testimonianza d’amore, siamo ancora molto lontani. Mentre nasce l’era delle relazioni, ci accorgiamo di essere poco preparati a vivere insieme, in ritardo rispetto alle esigenze che la storia ci sta chiedendo.
  2. Poco ci aiuta la società che pone come base della vita delle persone l’interesse, l’utile e il profitto.
  3. Poco ci aiuta la coppia e la famiglia dove prevale il mordi e fuggi, le crisi sono sotto gli occhi di tutti e l’io è ancora troppo ingombrante rispetto al noi.
  4. Poco ci aiuta la Chiesa e i suoi ministri, perché non si afferma adeguatamente una pastorale comunitaria di partecipazione e di comunicazione e si dipende ancora dal modello dei doveri e delle pratiche religiose.
  5. La grande conversione che ci viene chiesta da circa 60 anni è passare dal modello societario a quello comunionale o addirittura sinodale; è questa la sfida che siamo chiamati a vivere anche noi come Chiesa Diocesana.
  6. Ci chiediamo come mai tanta lentezza nel cammino di conversione; nonostante la teologia e il magistero sviluppino da anni l’ecclesiologia e i lineamenti pastorali sulla linea della comunione, la prassi ecclesiale non decolla.
  7. Probabilmente non diamo ancora sufficiente attenzione alla spiritualità di comunione.

 

Spiritualità di comunione, spiritualità di chiesa sinodale

  1. Come possiamo liberarci del nostro io ego centrato che ci tiene relegati nelle nostre prigioni mentali per riuscire a sperimentare in modo più concreto la libertà creatrice dell’io vero, cioè del figlio di Dio? La tradizione cristiana ci insegna che questo passaggio avviene mediante il Battesimo.
  2. La domanda che ci facciamo è come mai, nonostante abbiamo ricevuto il battesimo, questa rigenerazione non sia avvenuta? Probabilmente la risposta sta nel fatto che abbiamo messo in evidenza l’aspetto dottrinale, abbiamo rappresentato l’importanza e il valore del battesimo, ma non abbiamo vissuto nella nostra esperienza di figli e fratelli nella Chiesa la nostra rigenerazione. Siamo rimasti fondamentalmente quelli di prima, se non addirittura in certi casi peggiorati. In questa fase della storia ci stiamo rendendo conto che per secoli abbiamo delegato quasi interamente a una sorta di automatismo sacramentale, a una specie di pensiero magico, i processi della nostra liberazione, trascurando i processi della fede dei credenti, la loro iniziazione quasi fisica ai misteri, e quindi la loro concreta trasfigurazione progressiva, senza la quale i sacramenti non hanno molta efficacia, né molto senso.
  3. Tutta la bibbia ci insegna che Dio lo incontriamo nella vita, nella storia dell’umanità, la stessa cosa ci dice il magistero in maniera sempre più chiara e convinta dal concilio in poi. Ricordiamo il testo di Gaudium et spes n° 11: Il popolo di Dio, mosso dalla fede con cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle richieste e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza o del disegno di Dio. La fede, infatti, tutto rischiara di una luce nuova, e svela le intenzioni di Dio sulla vocazione integrale dell’uomo, orientando così lo spirito verso soluzioni pienamente umane. Questo ci dice che è il livello esistenziale, esperienziale e storico, il livello dell’incarnazione personale e storica concreta ad assumere sempre maggiore rilevanza spirituale anche rispetto all’evento sacramentale del battesimo, che resta un inizio, un seme indispensabile; ma se non cresce e non fiorisce, rischia di marcire.
  4. Quindi comprendiamo quanto sia fondamentale ripartire da una lettura profetica della storia per capire cosa sta morendo non solo nella chiesa, ma nell’esperienza del mondo: il nostro io ego centrato, il nostro io bellico, e che cosa sta fiorendo: il nostro io relazionale e procreativo, figura più evoluta di umanità. Dobbiamo, rileggere a partire dalla Sacra scrittura e dal magistero tutta la vicenda umana per intuire tutte le direttrici evolutive che oggi chiedono di essere proseguite. L’interpretazione profetica del presente è la prima componente indispensabile per un rinnovamento dell’esperienza cristiana del nostro secolo. Da qui possono svilupparsi le giuste traiettorie riformatrici per la chiesa e anche per la nostra formazione.

 

L’elemento autoconoscitivo

  1. Papa Francesco ci aiuta a comprendere che abbiamo bisogno di nuovi metodi e nuovi linguaggi per incamminarci più speditamente verso una vera riforma della nostra esperienza umana ed ecclesiale. La Chiesa ci chiede un rinnovamento che si esprime con espressioni per noi divenute ormai parte del nostro linguaggio: passare dalla Chiesa piramidale a quella comunionale – sinodale. Ci ricorda il Papa nella EG n° 33: Invito tutti ad essere audaci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangelizzatori delle proprie comunità. Una individuazione dei fini senza un’adeguata ricerca comunitaria dei mezzi per raggiungerli è condannata a tradursi in mera fantasia.

Prima di mettere mano alla riforma dell’annuncio della fede, delle strutture ecclesiastiche, dei metodi che riguardano la nostra testimonianza, dobbiamo mettere mano alla nostra conversione personale ed ecclesiale, dobbiamo saperci guardare dentro, fare emergere le nostre malattie, chiedere al Signore della vita di ungerle con il balsamo della misericordia e della guarigione e quindi avviare le nostre riforme. Altrimenti resteremo sempre otri vecchi che non potranno mai contenere il vino nuovo di cui ha bisogno questa umanità.

  1. Dobbiamo renderci conto che in questo tempo in cui sta emergendo una nuova forma della soggettività umana, cercando di allontanarsi dalla forma del passato ego centrata e bellica, ci accorgiamo quanto sia forte e resistente nell’anima umana, in ciascuno di noi, la struttura mentale dell’uomo vecchio. Perciò oggi siamo chiamati a individuare molto più a fondo i meccanismi molto più sottili della nostra mente ego-centrata, per liberarcene. E per far questo dobbiamo studiare bene anche la genesi familiare delle nostre forme distorte di pensiero e di comportamento. Dobbiamo poi imparare a sondare, ad ascoltare e a riconoscere con cura e con pazienza tutti i serbatoi di odio, di rabbia, di vergogna, di paura e di disperazione che alimentiamo ancora nelle nostre profondità, per aprirli tutti a una vera e radicale bonifica. In quanto le forze distruttive dell’anima non si curano reprimendole o negandole, né tantomeno mascherandole sotto spessi strati di ipocrisia, ma solo lasciandole emergere alla luce di una coscienza benevola e creatrice, capace di utilizzare in modo costruttivo anche le nostre caratteristiche dense di rabbia. Pensiamo a quanto sta emergendo non solo nella Chiesa, per fare degli esempi, ai problemi di pedofilia, allo scandalo dei preti gay, ai tanti femminicidi, alle coppie e famiglie che si disgregano. È il mondo ego centrato e bellico che emerge e che la potenza dell’amore di Dio desidera ardentemente sanare. È quel mondo che non abbiamo mai voluto riconoscere e che abbiamo voluto nascondere sotto la sabbia e che ora si sta tremendamente rivelando. Ma c’è anche un mondo più o meno sommerso, che non appartiene agli scandali, ma fa parte del tessuto della vita di ogni essere umano, di situazioni di profondo disagio, di fragilità umane che ognuno porta dentro di sé e che desidera siano guarite dal Padre della misericordia e finalmente possa rinascere l’umanità nuova delle relazioni, l’umanità capace di trasmettere vita. Ecco, ora può nascere l’umanità che vuole estirpare la bandiera delle tante violenze, delle guerre, dello sfruttamento autorizzato dei popoli poveri, del comportamento aggressivo nei confronti della natura, perpetuati per secoli e in modo palese da tante nazioni che portavano il nome cristiano. Ora, se vogliamo, possiamo estirpare dalla nostra terra quella bandiera e piantarne una nuova: quella della pace, delle relazioni che mettono tutti i popoli nelle condizioni di crescere e svilupparsi, quella che riconosce i diritti di ogni popolo soprattutto degli sfruttati e degli scartati, quella del profondo rispetto della natura e dell’ambiente.

 

Per proseguire più velocemente il viaggio verso questo mondo nuovo, dobbiamo seriamente imparare a pregare.

I padri del deserto amavano parafrasare il passo del vangelo del giovane ricco, applicandolo alla preghiera e a quanto può realizzare nella nostra vita.

Se vuoi pregare veramente, va, vendi tutto quello che hai: distrazioni, paure, rabbia, risentimenti, apri il tuo cuore allo Spirito di Dio e allora potrai pregare veramente. La crisi della fede cristiana è innanzitutto crisi dell’esperienza di Dio, di tutte le pratiche contemplative. Da secoli la Chiesa cattolica sembra impoverirsi in questo ambito. Ma il passaggio mentale che noi predichiamo, la continua metanoia dell’uomo vecchio, implica, se lo vogliamo realizzare per davvero, il costante ed inesauribile spegnimento dei pensieri e degli attaccamenti del nostro io ego-centrato, affinché possiamo ascoltare svuotati, cioè silenziati, la parola che Dio, adesso, e sempre di nuovo in questo presente riconquistato, riplasma la nostra identità, fecondando la nostra sostanza spirituale con i pensieri di Cristo, e solo così  potrà aiutarci a somigliare a lui. Già San Basilio scriveva nel IV secolo: Bisogna cercare di tenere la mente nella quiete. Non è possibile scrivere nella cera se prima non si sono spianati i caratteri che vi si trovano impressi. Allo stesso modo non è possibile offrire all’anima gli insegnamenti divini se prima non si tolgono via le idee preconcette derivanti dai costumi acquisiti. Noi, però, diamo per scontata la fase del silenziamento, della reiterata e ardua rinuncia del nostro vecchio io, e quindi del raccoglimento veramente disponibile all’ascolto, rischiando così di far pronunciare proprio all’ego di sempre preghiere che non lo mutano affatto, ma anzi lo consolidano nella sua alienazione. E non è proprio questa la tragedia di tutta la storia dell’occidente cristiano? L’affermazione di un cristianesimo senza conversione? Scrive Andrè Louf: Lo stato di grazia significa, a livello del cuore, stato di preghiera. Là, nell’intimo più profondo di noi stessi, siamo dal nostro battesimo in contatto continuo con Dio. Lo Spirito Santo di Dio si è impadronito di noi, si è completamente impossessato di noi: si è fatto il respiro del nostro respiro, lo Spirito del nostro spirito.

La preghiera autentica, infatti, è l’espressione della fede, sono le parole che lo Spirito pronuncia in noi e che noi facciamo nostre, dando loro credito, e divenendo così noi stessi il Figlio che prega, il nuovo io procreatore e salvatore del mondo. Senza questa esperienza orante della fede la stessa liturgia rischia di trasformarsi in una commedia noiosa e ripetitiva cui giustamente nessuno vuole più assistere. Anche Joseph Ratzinger ci viene in aiuto quando precisava nel 1989 nel documento Orationis formas della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possono costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne”.

Dobbiamo imparare a pregare con tutto il nostro essere, con la mente e con il corpo, con il respiro e con il cuore, affinché possiamo realizzare più compiutamente lo stato di grazia della vera preghiera. C’è ancora tantissima strada da fare in questa direzione; incombe ancora su di noi e in tanta pastorale, un immane pregiudizio che continua ad avvilire e a sminuire la bellezza e il mistero stesso del corpo. Dobbiamo dissolvere queste nuvole nere e tristi che ci schiacciano, e liberare lo spirito gaudioso dell’iniziazione cristiana, la sua infinita capacità di dilatare il cuore e di donare a tratti anche al corpo, e perfino a quello più ferito, la gioia segreta della sua eterna gloria.

 

E allora possiamo diventare Chiesa-comunità

Questo è il nostro grande sogno, che rinnovati come persone e come presbiterio possiamo accingerci a realizzare, pur sapendo del percorso lungo e faticoso, ma anche emozionante, che ci attende. Si tratta di uscire dal modello societario che privilegia su tutti il ruolo del ministro ordinato, in una concezione di diseguaglianza tra i membri della Chiesa. In positivo si tratta di progettare e realizzare il modello comunitario che privilegia la fusione degli intenti, le relazioni vitali, la cooperazione organica tra tutti, in una concezione di uguaglianza tra i membri della Chiesa. Per vivere un’autentica comunione è necessario acquisire una mentalità rinnovata e acquisire uno stile di vita che la esprima nella dimensione concreta della fede e della spiritualità. Si tratta di mettere al centro dell’esperienza ecclesiale non tanto le cose sacre, quanto i soggetti santi, ossia i credenti, in quanto amati da Dio, da lui scelti per costituire la sua Chiesa, l’assemblea degli eletti.

Questa è la spiritualità della Chiesa, è il suo elemento costitutivo che possiamo vivere quando accogliamo e manifestiamo l’amore trinitario che ci fa chiesa, unione con gli altri nella verità e nell’amore che Cristo ci manifesta da parte del Padre nello Spirito.

Nei nostri ritiri di quest’anno approfondiremo l’esperienza della Celebrazione Eucaristica. Ci auguriamo che diventi sempre meno rito, sempre più esperienza di accoglienza, di rivelazione del Dio con noi, di misericordia, di rinascita, di festa gioiosa della comunità che, finalmente, nella gioia di stare insieme, incontra il suo Signore risorto.


“Duc in altum!” – Plenum con i sacerdoti diocesani

Incontro del vescovo Giuseppe con i sacerdoti – Aula Magna del Seminario diocesano

“Duc in altum!” disse Gesù a Pietro sulle rive del lago di Galilea. In questo tempo nuovo che si apre davanti a noi, il tempo di un dopo pandemia che si sta delineando anche se ancora incerto, vogliamo sentire per noi queste parole di Gesù, Duc in altum: Chiesa di Cerreto Sannita–Telese– Sant’Agata de’ Goti prendi il largo, non restare ferma negli orizzonti in cui ci ha confinato la pandemia, non restare confinata negli orizzonti di sempre del prima della pandemia, non rimanere prigioniera di abitudini: prendi il largo, alza le vele per farti portare dove lo Spirito chiede. Abitudini, pigrizia, rassegnazione, tristezza, possono diventare zavorra che spingono a non uscire fuori dove il Signore chiede ed attende. Tutti dobbiamo “prendere il largo”. Questo richiede una decisione chiara e un impegno nuovo. Restare fermi è una tentazione sottile e, quindi, più pericolosa. È facile per i sacerdoti pensare che si fa già tanto; e è anche vero che si lavora davvero molto. Ed è altrettanto facile per i fedeli, presi dai ritmi della vita, nascondersi dietro la pigrizia che ha preso la vita di tanti, soprattutto con la pandemia.

“Cosa posso fare di più ?” Rispose così anche il giovane ricco: “Ho sempre osservato tutte queste cose” (Mt 19,20). Ma Gesù chiedeva di andare oltre. Quel giovane, invece, convinto di aver fatto tutto scelse di restare com’era, e se ne andò via triste. Ma questo tempo che abbiamo vissuto, non trovi una chiesa spenta,  una Chiesa triste, perché convinta di aver fatto tutto il possibile o rassegnata perché di fronte ad una società diversa, difficile, smarrita, disincantata. Ecco perché sentiamo oggi “Duc in altum!”

Io credo che questo tempo nel quale siamo entrati, che abbiamo iniziato, non è solo un cambio di calendario; è soprattutto una vocazione, una chiamata. Questo tempo  ha bisogno di ricevere il Vangelo e il Signore ci chiama a gettare con abbondanza il seme della Sua Parola perché il nuovo tempo riceva una energia nuova di pace, di amore, di solidarietà, di futuro e di speranza. Non importa perciò se sino ad ora abbiamo “faticato tutta la notte senza aver preso nulla”, come rispose Pietro; ma neppure è più sufficiente dire che in fondo, come sempre, stiamo facendo il nostro dovere, che abbiamo portato avanti il nostro lavoro. Il Vangelo ci esorta a ripetere con Pietro: “Sulla tua parola getterò le reti!” E noi, con obbedienza umile ma decisa, le reti, le gettiamo. E le gettiamo a partire dalla Messa della Domenica.

Vogliamo partire da questo che è il nostro specifico. La messa è il cuore della nostra vocazione, è il motivo per cui siamo diventati preti. Uomini della liturgia, discepoli che preparano la mensa per sé e per tutti gli invitati alla mensa del Signore.

Papa Francesco ha invitato tutta la Chiesa a interrogarsi sulla sinodalità: un tema decisivo per la vita e la missione della Chiesa. Ne terremo conto in quest’anno che si apre davanti a noi, convinto che la sinodalità non è solo una strategia pastorale, o una organizzazione diversa delle cose di sempre, ma Sinodalità, alla luce del vangelo è e deve essere soprattutto fraternità che si fa azione comune. La fraternità è il presupposto di ogni azione pastorale senza la quale diventiamo operatori anche bravi, ma operatori. Ma noi non siamo operatori, noi siamo fratelli, uniti nell’unico sacerdozio che è quello di Cristo. Forse siamo ancora troppo condizionati dai rapporti umani, da simpatie, antipatie, giudizi, pregiudizi, ma noi siamo fratelli in Cristo. Lo siamo certo attraverso il Battesimo, lo siamo ancora di più per il dono del sacerdozio.

Duc in altum: Quest’anno ci fermeremo sulla Liturgia Eucaristica domenicale non come un aspetto, certamente importante ma parziale, della vita della nostra Chiesa diocesana. No, l’Eucaristica domenicale costituisce il cuore stesso della nostra Chiesa: è ciò che la fa vivere e che le da forza; è ciò che le da gioia e che la sostiene nella testimonianza del Vangelo; è ciò che la forma come famiglia e che le permette di essere l’anima della società. Il dopo pandemia credo ci chiede di recuperare, di far brillare la liturgia della Domenica come momento di festa e di gioia di una Comunità che si raccoglie attorno alla mensa del Signore. Una Comunità, non tanti individui che entrano tali e che escono tali. La liturgia della domenica è dono di Dio che si ribella al nostro individualismo, non lo accetta e che quindi non rinuncia a raccoglierci perché impariamo ad essere una famiglia, parte del popolo di Dio. Non individui, ma persone che si sentono uniti gli uni agli altri. Vogliamo “prendere il largo” a partire dalla Liturgia Eucaristica domenicale. E sappiamo bene di non partire a vuoto e alla cieca. L’evangelista Luca, subito dopo la risposta di Pietro, nota: “e avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano”. Questa certezza che ci viene dal Vangelo è la nostra forza.

“Prendere il largo” non vuol dire, ovviamente, partire da zero. La nostra Chiesa diocesana con i miei predecessori, ultimo il nostro caro don Mimmo, che in ogni occasione sempre ringrazio per tutto quanto fatto e seminato prima di me, sempre ha compiuto un notevole cammino alla luce del Concilio vaticano II. E il mio pensiero, in modo particolare va, pieno di gratitudine, ai nostri vescovi che hanno vissuto e accolto il Concilio. In particolare a Mons. Leonardo, vescovo dal 1957 al 1991 che ha vissuto il tempo del Concilio ed il post-concilio con le sfide di una novità che ha fatto fatica all’inizio ad essere accolta. Ma poi dopo di lui Mons. Paciello, Mons. De Rosa, Mons. Battaglia. Soprattutto all’inizio si trattò di un difficile e doloro passaggio da una tradizione secolare al nuovo che il Concilio chiedeva. Nella Chiesa di Napoli da cui provengo, ci fu una vera e propria emorragia di sacerdoti che lasciarono.

Come non ricordare però anche tutti i sacerdoti che, con zelo e fedeltà alla celebrazione eucaristica, hanno trasmesso il mistero della Eucarestia di generazione in generazione? La loro memoria sia di benedizione per il nostro cammino.

Coloro che ricordano com’era la Messa prima del  Concilio Vaticano II sanno bene quanta strada sia stata fatta. E tuttavia molta ne resta ancora da fare per gustare e vivere appieno il dono che la Liturgia rappresenta per la comunità cristiana.

La Costituzione sulla Liturgia emanata dal Vaticano II, la Sacrosanctum Concilium, fu il primo documento firmato dai Padri conciliari, quasi segno di una priorità che lo Spirito mise nel cuore dei Padri Conciliari. Questo documento conciliare sarà l’orizzonte nel quale si inseriranno queste nostre riflessioni.

Ci troveremo ad approfondire il senso della festa e della liturgia, della celebrazione comunitaria attorno alla mensa della Parola e dell’Eucarestia, del cammino di fede costituito dall’anno liturgico E ancora: “L’Eucarestia nel Giorno del Signore resta l’antidoto più naturale alla dispersione” e “il luogo privilegiato dove la comunione è costantemente annunciata e coltivata”.

Guardiamo le nostre celebrazioni domenicali. Rispondono a questo ideale? Ogni parrocchia e comunità conosce le proprie, o meglio, ciascuno conosce la sua Messa. La pandemia ha rallentato  la partecipazione dei fedeli all’eucarestia domenicale e reso problematica ogni attività pastorale. Non metto in dubbio che da molte parti questo possa essere vero e che il protrarsi dell’emergenza sanitaria ci metta a dura prova. Mi chiedo però quanto serva insistere con le lamentazioni o se non serva, piuttosto, ricominciare a fare con cura le cose che contano. Rimettere al centro le poche cose che valgano veramente. Togliere l’inutile ed accudire l’essenziale.

Che vuol dire cura liturgica (che non è estetismo), predicazione accurata (che non è moralismo), vicinanza alle persone (che non è verbalismo).

Una comunità cristiana non preoccupata dei numeri, piuttosto preoccupata, più che di sé, di seguire la verità del Vangelo che sta sempre davanti. Non dietro o, peggio, in tasca. Mi torna spesso alla mente il Vangelo secondo Matteo di Pasolini: Cristo in questo splendido film è ripreso spesso di spalle. È lui che cammina avanti. Anche in questo tempo. Tempo di semina e di grazia. Nonostante tutto. Nonostante noi.

La nostra Chiesa diocesana non è certo l’unica in Italia a registrare livelli molto bassi di “praticanti regolari”, ma pur essendo bassa la partecipazione, è molto alto il livello di identificazione religiosa: la maggioranza si dichiara comunque cattolica. Questo porta a dire che il nostro cattolicesimo è un cattolicesimo a larga diffusione ma a bassa intensità: insomma, la grande maggioranza si professa cattolica ma solo pochi partecipano alla Messa domenicale.

In questo anno pastorale in tutte le parrocchie, nei gruppi, nei movimenti, negli istituti religiosi, in tutti i luoghi di culto, vorrei si aprisse  un grande e prolungato “esame di coscienza” sulle Messe della Domenica. È molto  ancora radicato il senso devozionale e individuale della Messa domenicale, che va a scapito di una concezione comunitaria; una  concezione privatistica della liturgia. È necessario che la Messa sia una vera esperienza di incontro con Dio e con i fratelli. Ovviamente non è solo questione di riorganizzare i riti e di abbellire i luoghi, cose peraltro urgenti e necessarie, ma di rinnovare nella nostra vita il senso vero della Liturgia Eucaristica domenicale per la propria vita e per quella dell’intera comunità. La posta in gioco, infatti, è alta: ne è della santità stessa di ciascun credente e della stessa comunità diocesana. E, mi permetto di aggiungere, anche della salvezza delle nostre città.

La Liturgia Eucaristica della Domenica non è una delle pratiche di pietà personali. È molto, molto di più: è la fonte della santità e della salvezza per i credenti e per il mondo. Vogliamo essere un popolo che prega incessantemente, un popolo che fa della Liturgia Eucaristica il luogo prioritario della sua crescita spirituale ed umana. Non temo di esagerare affermando che la santità della Chiesa di Cerreto Sannita – Telese – Sant’Agata de’ Goti (e di ciascuno di noi), e la salvezza della nostra terra, si giocano a partire dalla Liturgia Eucaristica domenicale.

Credo si possa dire, pertanto, che la Messa domenicale resta il cuore della nostra Chiesa e della nostra terra. Tutte le nostre attività pastorali confluiscono nella messa della Domenica.

La vita triste e a volte violenta delle nostre terre è legata anche all’assenza o alla fiacchezza delle Messe domenicali. Tutti abbiamo bisogno del giorno della risurrezione, del giorno della festa, del giorno dell’amicizia e del perdono, del giorno in cui è possibile vedere le “primizie dello Spirito”. L’apostolo Paolo parla di tutta la creazione che “geme e soffre nelle doglie del parto”(Rm 8,22). Ebbene, la Liturgia Eucaristica domenicale è ciò che maggiormente mostra alla nostra terra la “presenza di Dio”, ciò che maggiormente le rivela il “senso di Dio” e, di conseguenza, ciò che con più vigore la spinge ad essere una “terra nuova”.

Una  Domenica scialba, come tante volte sono le nostre Domeniche, sbiadisce la gioia e mostra una Chiesa fiacca e avara che non è fermento di vita nuova.

Si potrebbe tuttavia affermare che, nonostante le nostre manchevolezze, la Liturgia Eucaristica domenicale continua la sua opera di redenzione del mondo, un po’ come quel seme – di cui parla il Vangelo – il quale, una volta gettato dal padrone nel campo, opera sia che noi vegliamo sia che noi dormiamo (Mc 4,26). Un autore russo, forse pensava proprio a questo, quando scriveva della celebrazione della Eucaristia nella sua terra: “se la società non è ancora totalmente sgretolata, se gli uomini non nutrono ancora un odio assoluto gli uni per gli altri, la causa segreta di ciò è la celebrazione dell’Eucarestia”.

E allora quest’anno che si apre davanti a noi chiedo a tutti di vivere questa tensione del cuore: non si tratta di fare qualcosa in più, ma di ricomprendere meglio quello che già facciamo.

Ci soffermeremo allora nei nostri incontri mensili, da un lato ad approfondire il cammino sulla sinodalità che la chiesa universale vivrà, ma poi ci soffermeremo volta per volta sui vari aspetti della liturgia: i canti, la predicazione, l’accoglienza, le letture, i silenzi, il raccoglimento…

…E adesso se ci sono domande da fare…

† Giuseppe, vescovo


Curare le relazioni al tempo della ripresa

Lettera della Presidenza CEI a tutti i Vescovi all’inizio del nuovo anno pastorale

Non può esserci azione pastorale della Chiesa senza la cura delle relazioni. Nel tempo della pandemia, proprio nei periodi più bui, abbiamo scoperto che l’essenziale è proprio la relazione: tra operatori pastorali, con i ragazzi e le loro famiglie, con le persone sole… Per salvaguardare questa esigenza primaria abbiamo imparato a utilizzare nuovi modi e strumenti per comunicare: social media, streaming, etc. Anche se le attività pastorali sono ancora condizionate dalle giuste e dovute attenzioni per contenere il rischio di contagio dal virus, la campagna vaccinale – tuttora in corso nel Paese – permette di far tornare all’ordinario quanto finora previsto come straordinario o emergenziale. Ovviamente, dove ricorrono le condizioni di sicurezza: è importante non far mancare ai fedeli quei gesti di preghiera, partecipazione e speranza che testimoniano la vicinanza della Chiesa in questo tempo così particolare. Per questo, anche la trasmissione in streaming della Messa può essere stata un aiuto in tempo di emergenza, nell’ottica di una prossimità più familiare e comunitaria, ma certamente non è da ritenere una soluzione, e neanche un’alternativa in tempo di non emergenza.

La cura delle relazioni

Il Vangelo è annunciato nella cura delle relazioni: Gesù testimonia l’amore del Padre ai malati che incontra, ai peccatori che perdona, ai discepoli che chiama. Gesù annuncia la vicinanza del Regno di Dio con la sua prossimità a coloro che sono scartati ed emarginati. Lo stile di cura del Signore è per la Chiesa un appello ad alimentare relazioni di solidarietà, comunione e attenzione verso tutti, soprattutto i più deboli. In questo periodo ci accorgiamo anche di quanto la pandemia abbia inciso sulla rete di relazioni ecclesiali, di quanto la distanza e il confinamento abbiano messo a rischio la tenuta del tessuto comunitario: nonostante i lodevoli sforzi e la creatività pastorale di molti, si avverte come le relazioni “mediate dal digitale” non possano avere sempre quello spessore umano e quell’intensità corporea ed emotiva necessari a costruire rapporti fraterni ed evangelici. La ripresa delle attività pastorali invita, nella necessaria prudenza e nel rispetto delle normative vigenti, ad avere un surplus di cura delle relazioni perché il ritorno “in presenza” non avvenga semplicemente con i tempi e i metodi pastorali a cui eravamo abituati, ma diventi un’occasione per mettere al centro ancora di più l’incontro tra le persone, luogo in cui si realizza l’incontro tra Dio e l’umanità, tra il Signore e la sua Chiesa, nell’annuncio della Parola, nella celebrazione dell’Eucaristia e nella condivisione tra i fratelli. Vanno in questa direzione il progetto per gli adolescenti “Seme diVento”, proposto dal Servizio Nazionale per la pastorale giovanile, insieme all’Ufficio Catechistico Nazionale e all’Ufficio Nazionale per la pastorale della famiglia, e il testo che ha predisposto l’Ufficio Catechistico Nazionale proprio in vista della ripresa delle attività di catechesi.

La relazione pastorale è attenzione alle persone

Nella cura della relazione pastorale non deve mai mancare l’attenzione massima alle persone che s’incontrano e che s’intende servire come operatori. Tale attenzione diventa gesto di amore anche attraverso la scelta di vaccinarsi. Papa Francesco, nel videomessaggio ai popoli dell’America Latina del 18 agosto 2021, ha ricordato che «vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore. E contribuire a far sì che la maggior parte della gente si vaccini è un atto di amore. Amore per sé stessi, amore per familiari e amici, amore per tutti i popoli». Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intervenendo il 20 agosto 2021 alla sessione di apertura della 42ª edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, ha sottolineato che «il vaccino è lo strumento più efficace di cui disponiamo per difenderci e per tutelare i più deboli e i più esposti a gravi pericoli».  

Un appello alle coscienze

Il tema della vaccinazione, come noto, rientra nella più ampia materia della tutela della salute pubblica ed è affidato alle competenti autorità dello Stato. Finora l’obbligo vaccinale riguarda solo alcune circoscritte categorie di lavoratori. La normativa civile attuale non prevede l’obbligo vaccinale né richiede la certificazione verde per partecipare alle celebrazioni o alle processioni né per le attività pastorali in senso stretto (catechesi, doposcuola, attività caritative…).

Resta fondamentale mitigare i rischi di trasmissione del virus, che è ancora pericoloso, specialmente nelle sue varianti. Per questo è bene continuare a osservare le misure di protezione finalizzate alla riduzione del contagio, quali l’uso delle mascherine, il distanziamento fisico e l’igiene costante delle mani. La prevenzione di nuovi focolai passa, infatti, attraverso l’adozione di comportamenti responsabili e un’immunizzazione sempre più diffusa.

La tematica è complessa e la nostra riflessione dovrà rimanere aperta. L’appello del Papa, tuttavia, interpella le coscienze di tutti e, soprattutto, di chi è impegnato nell’azione pastorale delle nostre comunità. Siamo, dunque, chiamati a rispondere per primi a “un atto di amore” per noi stessi e per le comunità che ci sono affidate. Facciamo quanto è nelle nostre possibilità perché le relazioni pastorali riprendano nella cura vicendevole e, specialmente, dei più deboli. Facciamolo come atto di risposta al mandato del Signore di servirci gli uni gli altri, come lui si è fatto nostro servo; come segno di accoglienza del suo invito a prenderci cura gli uni degli altri, come lui si è preso cura di noi.

Alcune linee operative 

Ci sono alcune attività pastorali che possono esporre a un particolare rischio di contagio o perché svolte in gruppo (come la catechesi) oppure per la loro stessa natura (come le attività coreutiche). La cura delle relazioni chiede d’incentivare il più possibile l’accesso alla vaccinazione dei ministri straordinari della Comunione Eucaristica; di quanti sono coinvolti in attività caritative; dei catechisti; degli educatori; dei volontari nelle attività ricreative; dei coristi e dei cantori.

Pertanto, le Conferenze Episcopali Regionali e ciascun Vescovo, sentiti i Consigli di partecipazione, possono formulare messaggi o esortazioni per invitare alla vaccinazione tutti i fedeli e, in particolar modo, gli operatori pastorali coinvolti nelle attività caratterizzate da un maggiore rischio di contagio, come quelle elencate. Per contribuire a una maggiore e più efficace informazione, in questa fase potrebbe essere opportuno promuovere incontri con esperti che possano offrire spiegazioni e delucidazioni sul tema delle vaccinazioni.

Ovviamente, rimane inalterata la facoltà di ogni singolo Vescovo di definire criteri che consentano di svolgere le attività pastorali in presenza, in condizioni di sicurezza e nel rispetto della normativa vigente.

La Presidenza CEI

Roma, 8 settembre 2021
Natività della B. Vergine Maria