“ VOGLIAMO VEDERE GESU’ ”. Pensieri sparsi per questo tempo….

17-03-2018

“Vogliamo vedere Gesù” …
Il desiderio che mette in movimento. La Quaresima che invita a desiderare.
Ed è per questo che mi piace iniziare ammettendo che, per uno come me che cerca, da povero cristiano, di “vedere” Gesù e la sua vita, per lasciarsene in qualche misura contagiare, è fonte non piccola di consolazione il fatto che Gesù stesso abbia provato turbamento della morte.Lo ammetto, me lo sarei sentito meno vicino, meno compagno di viaggio, se non ne avesse diviso con me il turbamento, se verso la morte fosse andato con passo arrogante, da eroe, il forte cui non trema il cuore.

Leggo invece nel Vangelo che al profilarsi della sua ora, senza nascondimenti né vergogna, disse ai suoi: “Ora l’anima mia è turbata”. Leggo che, nell’orto, alla vigilia della morte “cominciò a spaventarsi e a sentire angoscia”. Confessò anche tristezza: “Ora”, disse, “l’anima mia è triste fino alla morte” (Mc 14,33-34). E sudò sangue.
Forse per questo, o anche per questo, non provo scandalo né per il Vangelo di Marco che di Gesù sulla croce, come ultima voce prima che spirasse, ricorda il grido, un grande grido che sembrò impigliarsi al cielo, né provo scandalo per uomini e donne che sembrano nel loro morire rivivere quel grido di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”, e oso anche sperare che, se questo sarà il mio grido, l’ultimo, qualcuno abbia tenera e larga compassione anche di me.

Il grido, quel grido, sembrò senza eco nei cieli, ma ci fu una risposta, risposta di luce e di vento, dopo tre giorni; fu l’avverarsi della piccola parabola che Gesù insegnò ai suoi, proprio il giorno in cui sentì l’anima turbata, la piccola parabola del chicco di grano che, cadendo nell’invisibilità buia della terra, proprio nella sua morte si apre al sussulto di un nuovo germoglio.
Se tu mi racconti quella parabola sento arretrare la paura. Vorrei che qualcuno me la ricordasse nell’ultima ora.
Così come vorrei che qualcuno mi ricordasse, per lottare contro ogni paura, la volontà di Dio, quella vera. Troppi ce l’hanno insegnata identificandola nell’immagine della sofferenza e della morte: “È la volontà di Dio” ci ripetevano, ma è una verità senza cuore.
Che cosa è volontà di Dio è scritto nel Vangelo di Giovanni là dove Gesù dice ai suoi: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. Che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (Gv 6,39).
Questa e non altra è la volontà di Dio, volontà di risurrezione, e mi dà forza contro la paura. Ogni paura.
Nemmeno il figlio dell’uomo fu salvato dalla morte. Nella morte è entrato come noi, come noi è caduto nella terra, ma da quella terra, che sembrava il segno della vittoria del male e della morte, fu resuscitato. E così Dio ha glorificato il suo nome. Perché la morte, la morte di nessuno, può essere una gloria di Dio. Il suo nome non è glorificato nella morte, ma nella vita dei suoi figli.
Ecco la parabola di Gesù, del chicco di grano caduto a terra. Per tre giorni caduto nella terra, nell’invisibilità, nel silenzio. Ma quel seme riposava nella terra: è rigermogliato. È risorto! E noi ancora oggi vediamo l’albero dare frutti. La linfa giunge fino a noi. E ci rende vivi. La parabola ci viene consegnata non solo come memoria, ma come invito: se uno mi vuol servire, mi segua. Al verbo vedere si accompagna il verbo seguire.
“Vogliamo vedere Gesù” era il desiderio.
Ora ti viene detto: hai visto, seguilo.
Anche tu sii chicco di grano.
Stai nella terra di tutti, nell’apparente insignificanza dei gesti quotidiani, nella dedizione apparentemente inosservata, stai nella terra dell’apparente insuccesso, nella terra delle domande senza risposte. E ricorda al tuo cuore la piccola parabola di Gesù: il seme produce molto frutto. Anche se gli occhi stanchi non vedono.
Lassù sulla croce, tra il diluvio e l’arcobaleno, è piantata la tenda del cristiano, l’unico spazio in cui il Vangelo e i drammi dell’uomo si danno appuntamento per abbracciarsi.
Credere è vedere una spiga di grano là dove tutti vedono un seme marcire.
Che gioia d’estate appoggiare lo sguardo sui campi dorati, sulle spighe che si arrampicano verso il cielo, sugli steli che inanellano danze nei meriggi assolati, sul vento che li accarezza all’imbrunire del sole. Ma all’inizio non era così: sotto terra c’era un seme, e t’avrebbe sporcato le mani solo a toccarlo. Non ci avresti scommesso nulla. Seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa, ma tutto trasformato in più vita. La gemma si muta in fiore, il fiore in frutto, il frutto in seme.

Vogliamo vedere Gesù: di questo dovrebbe gioire la Chiesa. Il desiderio che ancora abita tanti uomini e tante donne del nostro tempo, non sempre frequentatori di chiese. Molti li vedremo venire nelle chiese nei giorni della Settimana Santa e a portarli sarà il desiderio di vedere Gesù.
Vogliamo vedere Gesù … chissà se quell’udienza è stata concessa?
C’è gente che lo cerca, che si sente attirata dalla sua figura.
È l’ora del maestro, l’ora del successo, della popolarità, della gloria. Di fatto, Gesù afferma: è giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo.
Ma subito dopo, darà a quell’ora e alla glorificazione un contenuto molto diverso dalle attese di Filippo, di Andrea e dei greci …
Non è l’ora della notorietà. È invece l’ora del chicco di grano che deve scomparire e morire sotto terra. È l’ora di una dolorosa seminagione, non della messe trionfale. L’ora di Gesù è l’ora della passione, l’ora del passaggio da questo mondo al Padre.
E Gesù affronta l’ora della morte non come un eroe, ma come un uomo tra gli altri, un uomo che ha paura di morire. L’anima mia è turbata. Lui è sconvolto. E appare debole, fragile, indifeso, smarrito.

La sofferenza composta, bella a vedersi, non esiste. E, se esiste, non è vera sofferenza, è solo una recita. Il dolore appare sempre scandaloso, impresentabile, spaventoso a vedersi. Forse è possibile cantare (e piangere) portando la croce, ma non è possibile portare la croce gonfiando il petto o assumendo pose edificanti. Solo nella debolezza, non nella forza, è possibile portare la croce.

Gesù, quando vede avvicinarsi la sagoma inquietante del calvario, non sospira devotamente: urla.
E, appena prima di morire, l’aria sarà lacerata dal suo grido. Noi desidereremmo che l’Uomo dei dolori ci fornisse delle risposte. Invece sulle sue labbra troviamo solo delle domande, a cominciare dalla più sconvolgente: perché mi hai abbandonato? In quella voce ci sono la nostra disperazione, i nostri tormenti, i nostri dubbi, le nostre proteste, le nostre ribellioni. E quelle forti grida non sono ancora spente.
“Solo in Lui i miei gemiti diventano preghiera, in Lui la mia solitudine ritrova un’amicizia, e la mia notte la promessa dell’immancabile Luce” (Turoldo).
L’esaudimento da parte del Padre non è concesso nel dispensare Gesù dalla prova tremenda, ma nella trasformazione della sofferenza in cammino di salvezza. Anche il dolore può diventare sacramento di fraternità, scuola di umanità. Perché il dolore trasforma l’uomo. La sofferenza diventa perciò via di salvezza in Cristo.
La croce non ci fu data per capirla, ma per aggrapparci ad essa. Si è cristiani per attrazione: “Attirerò tutti a me”, e la fede è contemplazione del volto del Dio crocifisso.
Gesù non affronta la crocifissione con la forza, ma nella debolezza e, soprattutto, nell’amore.
Vogliamo vedere Gesù.
Solo nella luce pasquale Filippo sarà in grado di sciogliere l’enigma di quell’udienza. Era solo rimandata. Filippo, nel suo cammino, incontrerà ancora tanta gente che avanzerà la stessa richiesta. E come lui, anche Andrea, gli altri apostoli. E pure noi.
E, anche se Cristo non cammina più su questa terra, bisognerà “mostrarlo”. L’appuntamento dovrà essere fissato. Non sarà consentito sostituirlo coi libri o le argomentazioni teoriche.
Chissà, se nel bel mezzo delle nostre discussioni, delle nostre belle celebrazioni, convegni, difese appassionate, veniamo sfiorati dal sospetto che qualcuno ci possa avvicinare per una richiesta insolita: a parte tutto questo, è possibile vedere Gesù? È la vita del cristiano che deve essere trasparenza della luce pasquale.

Dove sono io, là sarà anche il mio servo.
Disposti a perdere la vita, non a soddisfare ambizioni e vanità. Capaci di respingere le suggestioni accomodanti e preferire l’umiltà.
È scegliere tra posizione di potere e privilegio e la posizione scomoda sulla croce. Tra simpatia ed autenticità. Tra compromessi e costosa fedeltà. Tra orgoglio e l’amore che si fa strada lentamente, liberamente. Nel segreto dei cuori e nella libertà delle coscienze.

Chi ama la sua vita la perde … ma anche la chiesa deve morire a sé stessa: non può evitare, se vuole aprirsi agli altri, di rivivere questo mistero di morte e resurrezione. La Chiesa è per il mondo, non per se stessa.
Attirerò tutti a me: lo sguardo è fisso sul volto di Gesù, che parla ancora con la sua vita. Ed è questo suo amore a restare fecondo anche sulla croce. L’amore di Gesù, lì, sta convertendo ancora, sta aprendo occhi e cuore.
Da quella croce l’amore continua a generare, a diventare fecondo. Ed è sempre Gesù a farsi vicino, in tutto quello che sta vivendo. Anche nella visibilità dell’amore, delle ferite, delle lacrime, il Signore viene sempre. Il suo amore non si arresta, rifà la storia dal di dentro, raddrizza, consola, costruisce, raggiunge, asciuga lacrime. Ci dona di diventare partecipi. Ci raggiunge la sua voce, ci chiama a stare con Lui, noi incapaci di accompagnare le domande e il dolore dell’altro, noi incapaci di aprire le porte delle chiese, incapaci di credere che davvero la croce, su quella croce, è l’albero della vita.
Non fallimento, ma vita compiuta, non solitudine ma vita di figlio e fratello.
Il mistero della morte si fa mistero di prossimità. Il suo passare al Padre porta sulla terra la vita che possiamo riconoscere e accogliere. È diventata la porta sull’umano. Nella sua morte tocca fino in fondo la nostra umanità. Dona fecondità anche alla morte. Vita dalla morte. Ha vinto il suo abbandono a Dio, ha vinto la sua passione per noi umani. Come a dire che l’amore, la passione per Dio e per l’uomo non muore, è più forte della morte. Più forte della morte è l’amore. È un amore che non può morire.

“E anche noi impariamo quanto il dolore diventi formazione di umanità.
Comprendere come il patire sia la necessaria prova che tu ami.
È stata la tua fedeltà, Signore, a condurti alla morte.
E non il salvarti da morte ma il farti risorgere è stato il tuo esaudimento:
che sia così anche di noi, Signore. Amen.”
( D.M. Turoldo)

† don Mimmo, Vescovo