Omelia in occasione del 50° Anniversario di Sacerdozio di Don Edoardo Viscosi.

28-07-2018

“Alzati gli occhi, Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”

E c’è un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci.

C’è un particolare in questo Vangelo di Giovanni: i pani sono d’orzo. Come d’orzo erano i pani offerti da uno sconosciuto ad Eliseo, erano una primizia. Infatti l’orzo matura prima del grano.

Pani di primizia. Non sono i pani di una scorta, no, sono le prime cose, via quelle non c’è più niente.

Era quello che succedeva al ragazzo del Vangelo: dati a Gesù i cinque pani d’orzo e i due pesci, non gli rimaneva più niente. Pani di orzo, pani di primizia, anche i suoi.

Ed è come se Dio, per moltiplicare i pani, avesse bisogno di qualcuno che dia le primizie, cioè di qualcuno che non calcoli. Cinque pani di orzo e due pesci… e lì attorno cinquemila uomini da sfamare.

Programmazione, razionalità, inventario delle risorse, calcolo delle possibilità. Qui salta tutto. I soliti criteri umani vengono sconvolti. E la cifra decisiva è quella della fede.

“Dallo da mangiare alla gente”; “fateli sedere”. Anche se non c’è nulla da mettere davanti a individui affamati.

Oggi uno scenario del genere sembra superato, basta lanciare una campagna di sensibilizzazione, arrivano gli aiuti umanitari e si procede alla distribuzione.

Ma negli episodi della liturgia di oggi c’è qualcosa di diverso. Siamo davanti non ad una azione umanitaria quanto ad una fede messa alla prova.

È una logica diversa: per cui si offre ciò che non si ha, si mette a disposizione di tutti ciò che non basta neppure a noi, si dice alla folla di accomodarsi perché comincia la distribuzione con una cesta vuota.

Ed è questione anche di una matematica diversa. Impossibile dividere venti per cento e cinque per cinquemila? E allora si divide moltiplicando, o si moltiplica condividendo, e ci saranno anche avanzi in gran quantità.

Ma io vorrei essere nella pelle di quel ragazzo. Per gustare, come ha fatto lui, il sapore del pane che ha regalato, del suo pasto che ha condiviso.

Sperimentare il gusto delle cose donate, la preziosità del tempo che hai speso per gli altri, la ricchezza di cui ti sei privato, la forza di energie che non hai risparmiato.

Sentire il calore che hai acceso in un cuore, assaporare la gioia che hai diffuso, la speranza che hai distribuito, la consolazione che hai dato.

Non c’è operazione finanziaria fortunata, non c’è affare vantaggioso, che possa anche lontanamente paragonarsi alla gioia provata da uno sprovveduto che si ostina a moltiplicare dividendo, ad accumulare sottraendo, a guadagnare perdendo…

Nei discepoli si può scorgere una tentazione sempre presente nella Chiesa: dai discepoli si può aspettare un buon insegnamento, una buona parola, ma ai bisogni reali e quotidiani è necessario trovare le risposte altrove, per le campagne e i villaggi vicini. E se Gesù non si fosse opposto, è molto probabile che la folla avrebbe creduto che era ben giusto arrangiarsi e se ne sarebbe andata in cerca di pane altrove, magari ringraziando delle buone parole e con un sorriso capace di nascondere i morsi della fame.

Ma avrebbe trovato veramente il pane necessario? Il pane buono?

L’avventura della vita della Chiesa, posta come sacramento di salvezza al cuore del cammino dell’umanità verso il regno di Dio, si gioca sulla capacità di farsi mediazione di un insegnamento che nutre ogni fame, che conforta ogni sete, che accompagna fino ad assumere ogni umano dolore, e soprattutto quelle sofferenze che rischiano di disumanizzare e a cui sembra richiamare l’apostolo quando dice: “comportatevi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto”. E precisa: “con ogni umiltà, dolcezza, magnanimità”.

Il racconto di Giovanni ha due peculiarità: una è la menzione della Pasqua. L’altra è Gesù che porta, con fine pedagogia, i suoi discepoli dentro il problema della fame delle folle.

Gesù segue una strada diversa da quella consigliata dai suoi discepoli, secondo cui la folla sarebbe da mandare via. Gesù non solo non è insensibile al bisogno che gli sta dinanzi, ma si lascia toccare e coinvolgere così profondamente fino a trasformare la parola in pane dopo che, quale Verbo eterno del Padre, si è fatto carne, per abitare in mezzo a noi e per essere salvezza per noi.

Ed è a questa salvezza, che tocca tutte le componenti della nostra realtà umana, che si può e si deve applicare la parola del profeta che suona per noi come incoraggiamento e stimolo: “ne mangeranno e ne faranno avanzare”. È qui che Gesù vuole portare i suoi discepoli: farli misurare con quel che li supera. Ed ecco il senso della Pasqua: se la Chiesa è solo il luogo del possibile, a cosa ci serve riferirci ad un uomo risorto da morte? È grande la tentazione di leggere tutto come una morale, come una serie di precetti etici da applicare per essere nel giusto. Restiamo nel campo delle possibilità e tiriamo diritto.

Ma la Chiesa è il corpo di Cristo, dove si fa esperienza della vita eterna, quella che non si misura sulle nostre forze. Niente di ciò che è cristiano è alla portata della sola buona volontà, perché ciò che è cristiano è sempre un incontro tra l’uomo e Dio, tra la povertà umana e la gloria di Dio. Dio si manifesta nei nostri limiti.

Nelle nostre mani cinque pani e due pesci sono poca cosa, ma nelle mani di Cristo sono ben altro. Diventano la manifestazione della sua Pasqua, quando si trae la vita dalla morte, il molto dal poco, l’abbondanza dalla scarsezza.

Ogni vita cristiana è una chiamata all’esperienza di vedere la povertà che diviene ricchezza per la potenza del Padre. Ma occorre consegnare i pani e i pesci a Cristo. Per sfamare questo mondo ferito non abbiamo bisogno di essere dotati chissà quanto, ma di saperci consegnare. Il mondo ha bisogno di cristiani che si consegnino nelle mani del Cristo, per poter mangiare la Sua opera, non la nostra. Per mezzo del nostro poco. Quel poco è il tutto che si dona.

Allora il nostro modello oggi, è proprio quel ragazzo senza nome e senza volto, che con il suo dono innesca la spirale prodigiosa del miracolo, tutta la sua disponibilità, significata anche dai numeri. Il 7, 5 pani e 2 pesci, dice la totalità della disponibilità.

Il brano inizia con la folla e termina con la solitudine. Tra la folla e la solitudine c’è l’infinita distanza che indica il nostro cammino verso la ricerca non del pane, ma di Dio. O, almeno, non del mio pane ma del pane per mio fratello. Il mio pane è un fatto materiale, il nostro pane è un fatto spirituale.

Non vale offerta a Dio di primizie, se non dividi col povero il pane.

Il problema non è la mancanza di pane, ma la mancanza di fede nella Parola che diventa lievito, che ci spinge alla condivisione, che ci chiama a fare di tutto ciò che abbiamo, di tutto ciò che siamo, dei sacramenti di comunione.

L’invito a raccogliere i pezzi avanzati sembra custodire un messaggio: il dono di Dio, i beni, non vanno sprecati, sperperati, sono un dono, un dono che non va buttato.

Invito a riconoscere la sacralità del dono. Raccogliete i pezzi, sono sacri e sono dono per tutti.

Così come per tutti è il dono del tuo Sacerdozio, carissimo don Edoardo. Ringrazio con te il Dio della vita per questo momento di grazia, per il dono bellissimo del tuo ministero sacerdotale.  Un dono del quale penso che non si abbia mai abbastanza coscienza.  Il tuo è stato ed è il servizio della speranza, della consolazione. Consolare è comunicare vita. Voglia di vivere.

Consolazione è una presenza che libera dall’isolamento, va ad abitare nella solitudine di qualcuno per farne un luogo di comunione. Consolazione è capacità di suscitare, nel vuoto più desolante, la tenerezza di Dio.

Io consolo quando permetto che l’esistenza di un fratello, ferita, spenta, a pezzi, poggi sulla stessa fiducia che sorregge la mia vita. Perciò consolare significa “dare cuore”. E il tuo cuore ha lo stesso profumo dell’Eucarestia: profumo di pane. Profumo di primizia. Perciò profumo di umanità, umanità vera.

Quante volte ti sei lasciato investire dalle sofferenze di coloro che erano stati travolti dal dolore, quante volte hai sopportato l’urto tremendo del dolore degli altri, quante volte ti sei lasciato scavare l’anima dalle lacrime della gente, e prendendoti cura di loro, reggendoli in braccio, con cuore di padre e di fratello, hai creduto nell’amore! Nella forza dell’amore! Il prete è colui che crede nella forza dell’amore. E senza vergognarti mai neanche delle tue lacrime!

La tua forza, come quella di ogni prete, è nello stare davanti al “Maestro”, in silenzio, in adorazione… Da Lui hai imparato a gioire e piangere, ad amare la terra e la stessa umanità. Nello stare davanti a Lui, da discepolo, siamo sempre discepoli, hai appreso la capacità di donarti senza misura. Ma quanta fatica in questo percorso, quante cadute, quanti momenti di sconforto…

Eppure, la speranza continua a vivere anche quando sembra impossibile, anche quando è come annegata dalle lacrime. Dio naviga in un fiume di lacrime, e lì accende il cuore. Dove tutto si ferma, lì Dio riparte. E questo il prete, ogni prete, lo sa bene. Per questo il prete è l’uomo della speranza.

Rammento quando ci siamo incontrati per la prima volta. Ero da poco stato consacrato vescovo e venni qui a Cerreto per iniziare a portare le prime cose per il trasloco.  Avevo saputo che eri stato poco bene e decisi, prima di ripartire per la Calabria, di passare a salutarti. Ricordo ancora il tuo volto stupito e felice nel ritrovarti all’improvviso il nuovo vescovo a casa tua. Rimanemmo insieme a parlare per un po’ e mi confidasti la tua fatica nel vederti costretto a casa senza poter andare in quella che per te era ed è la tua reale casa: questa chiesa. Ho subito percepito un legame forte, profondo, un amore viscerale per questa chiesa, questa parrocchia che stai servendo da 43 anni.

Amore visibile anche nella cura estetica di questa chiesa: so che tanti sono stati i lavori fatti, dalle facciate agli interni…questo sicuramente anche per la tua passione per l’arte che ti rende attento ai particolari, innamorato della bellezza.

Fin da subito ti sei fatto presente e compagno di viaggio delle persone, hai abitato le loro vite, le loro case, le strade del paese e le contrade. Ancora oggi, soprattutto di mattina, ti si incontra in giro a chiacchierare con la gente. E salutare tutti. Mi confidavi qualche giorno fa che questo è stato il grande insegnamento dei tuoi genitori.

43 anni sono tanti e tante sono le storie che si sono intrecciate con la tua in questo tempo, tanto da renderti cerretese tra i cerretesi. Hai amato ogni singola vita come sono certo che la tua vita è stata ed è amata da ogni singola persona presente stasera.

Allora è con te che voglio ringraziare il Signore per la bellezza del tuo Sacerdozio: attraverso il tuo essere prete, strumento nelle mani di Dio, continuamente fai sentire che Dio è nella vita, là dove un figlio soffre o si perde, è nella paura della pecora smarrita, è accanto all’inutilità della moneta perduta, nella fame del figliol prodigo.

La tua umanità forte e fragile, toccata da sorrisi e da lacrime, fatta di accoglienze ma anche di incomprensioni, è il luogo in cui ognuno può scorgere l’agire della misericordia di Dio.

Ecco allora la passione del pastore: la pecora perduta non torna da sé all’ovile; non è pentita, ma è a rischio della vita; non trova lei il pastore, ma è trovata; non è punita, ma caricata sulle spalle, perché sia più leggero il ritorno.

Come quella donna che perde la moneta e che si mette a spazzare ogni angolo e troverà il suo tesoro, lo troverà sotto tutta la spazzatura raccolta nella casa. E mostra come anche noi, sotto lo sporco e i graffi della vita, sotto difetti e peccati, possiamo scovare, in noi e negli altri, un piccolo grande tesoro anche se in vasi di creta…

Grazie, don Edoardo, per il tuo essere prete, semplicemente, prete… il tuo ministero è luogo sacro, benedetto, del tuo amore al Signore, il terreno sacro dove da Lui ti lasci raggiungere ed amare… Non si nasce preti; non so cosa vuol dire essere prete: ogni giorno lo inventa per me Colui che mi guida, Colui a cui appartengo, a cui mi sono affidato, consegnato. Colui che continua a chiamarmi, invitandomi e insegnandomi che non ci si fa prete una volta per sempre, ma ci si fa prete ogni giorno.  La vocazione è un fatto biologico, è un fatto esistenziale, strutturale, ti accompagna tutta la vita. Non tu hai scelto Dio, ma Dio ha scelto te. E tu non sei né puoi essere il protagonista della salvezza. Solo Dio lo è.

Tu puoi e devi essere un docile strumento nelle sue mani.

Non i luoghi sono privilegiati. Privilegiati sono gli uomini nei quali nasce il desiderio di lasciarsi raggiungere da Dio. Alla sequela di Cristo, sul passo degli ultimi, e ogni giorno con il bisogno di lasciarsi convertire. Stasera ci stai dicendo che essere prete è l’avventura più bella! Perché è il volto di Cristo che illumina i passi e attrae con il suo fascino. Se un giorno la sua voce è giunta alle nostre orecchie di giovani ed abbiamo scelto Lui, come unico Amore, è proprio perché siamo stati affascinati dalla bellezza di quel volto. E tutto dipende da quest’Amore che non ha età, perché cambia di espressività ma non di intensità.

E più ci sentiamo piccoli e deboli, tanto più sperimentiamo che il Signore è la nostra forza, ed è sempre fedele. Si, Dio è fedele! Nell’umiltà, nell’abbandono confidente, sta la nostra forza.

Auguri don Edoardo, e grazie ancora del tuo sacerdozio. Il Signore faccia di noi degli instancabili operatori di comunione e di pace.