Il dubbio è divenuto cultura. L’incredulità, virtù. La diffidenza, sistema. Conversione dello sguardo.

Riflessione di Apertura all’Assemblea del 3-4 Luglio 2018
03-07-2018

Riflessione di Apertura all’Assemblea del 3-4 Luglio 2018

3 luglio, Festa di San Tommaso Apostolo

 

Il dubbio è divenuto cultura. L’incredulità, virtù. La diffidenza, sistema. Conversione dello sguardo.

“Dio sa come vorremmo liberarci dalle nostre paure. Ma appena apriamo la porta, una tempesta di delusioni ci ricaccia dentro, condannandoci ad una interminabile crisi di fiducia.” Conversione dello sguardo.

Non è sempre semplice tutto questo, non è facile riportare la speranza lì dove abbiamo vissuto la sconfitta, non è facile aprire il cuore quando più volte l’abbiamo sentito trafitto e visto sanguinare, non è facile spogliarsi di sé stessi mettendo da parte tutto ciò che con fatica abbiamo costruito e ci siamo costruiti. Ma Dio ci chiede proprio questo, di andare oltre, insieme a Lui.

Accogliere che il tuo essere qui ed ora non è per caso ma per dono. Dono alla nostra Chiesa diocesana, dono al nostro essere confratelli, dono alle persone che accompagniamo nelle nostre parrocchie. Dono alla mia vita.

Questa Chiesa, questo tempo, ha bisogno di ognuno di voi. Dio ha bisogno di voi. Ha bisogno delle vostre mani per accarezzare la gente. Ha bisogno dei vostri piedi per poter procedere nel cammino. Ha bisogno dei vostri occhi per poter guardare ad ognuno senza mettere nessuno da parte. Ha bisogno della vostra bocca per benedire tutto ciò che vi è dato di vivere, per annunciare la bellezza e la pienezza dell’amore vero. Ha bisogno dei vostri orecchi per prendersi cura, entrando in profondità, attraverso l’ascolto vivo, vero. Ha bisogno del vostro cuore come luogo nel quale riposare e sentirsi al sicuro. Ha bisogno di un io disposto ad essere un noi. Per fede! Perché la nostra Chiesa, la nostra fraternità sacerdotale, è un noi, non tanti io. L’autoreferenzialità non costruisce, distrugge. E la comunione è un dono, da chiedere e in cui credere ogni giorno. Conversione dello sguardo.

“Voglia di trasparenza. Che è voglia di comunicazione con le cose, si, ma anche di rapporti veri con le persone. Nostalgia di occhi luminosi. Desiderio di sguardi limpidi. Ansia di gesti semplici. Passione di parole chiare.” Conversione dello sguardo.

Il noi si costruisce attraverso relazioni autentiche, vere. E’ solo nella verità che si può costruire su basi solide, sulla roccia. Non possiamo essere un noi se non riusciamo a guardarci negli occhi e a condividere ciò che abbiamo dentro; se continuiamo a prediligere solo piccoli gruppi nei quali tessere solo trame di lamenti e malesseri; e questo vuol dire separare, giudicare, non costruire … significa essere prigionieri dei propri pregiudizi. … ingabbiati nelle nostre rigidità, risentimenti, rabbia, paure. Accade quando guardi il mondo solo ed esclusivamente dalle tue ferite. Pensa a quante volte ti dici che non ti aspetti più niente, che tanto non cambia mai niente, o … chi me lo fa fare?

Non possiamo essere un noi se pensiamo di essere più bravi e migliori degli altri, se pensiamo di non avere bisogno degli altri … se continueremo a guardare gli altri dall’alto in basso. Se continueremo ad inchiodare gli altri al legno della nostra presunzione e, a volte, arroganza. Lo stile del discepolo di Cristo è un altro: uno stile di sobrietà, di semplicità, di limpidezza, di vicinanza.

Oggi, quando si parla di evangelizzazione, il pensiero ricorre subito al che cosa devo dire, e meno, molto meno, a come devo essere io, al mio stile di vita. Lo stile, si dice, è un fatto secondario. E non è vero. Non è vero per Gesù, almeno.

È come se lui dicesse: come fate ad annunciare la novità con una vita vecchia? Come fate a dare una buona notizia con la vostra aria impregnata di pessimismo? Come fate a dire che Dio è vicino, se voi tenete le distanze? Come fate a dire che la vostra fiducia è in Dio, se andate in cerca di appoggi umani?  Come fate a dire che la vostra ricchezza è il Vangelo, se rincorrete i beni del mondo? Lo stile è parte del messaggio. Ditelo con i fatti che per voi la vostra ricchezza è la sua grazia. Ditelo con la vostra sobrietà. Ditelo -come Chiesa- non rincorrendo i mezzi potenti. Ditelo con la vostra debolezza che la forza viene da Dio.

E’ questo il frutto della relazione in Lui, quella di cui abbiamo bisogno per procedere nel nostro cammino. Non camminare insieme, ma … insieme per camminare. Non si cammina mai abbastanza, spesso restiamo seduti, stanchi, rassegnati, senza lasciare che nulla ci tocchi, senza accorgerci di chi ci passa accanto. Se non camminiamo, se non camminiamo abbastanza, è perché non stiamo insieme. Ci fermiamo perché ci sentiamo soli, perché non sperimentiamo il conforto dei nostri compagni di strada, viviamo come in un isolamento pastorale. Non ci sentiamo come strumenti inseriti nella coralità di una orchestra. Eseguiamo, forse anche nella perfezione, ognuno il proprio spartito: ma i suoni si accavallano senza comporsi mai nell’armonia del concerto. Diamo prove di bravura personale, ma non di organicità collettiva. E il risultato è che ogni volta che annulliamo l’avverbio “insieme”, si annulla anche il verbo “camminare”. Ma la comunione è dono! Ed è trasparenza.

Che smania di cose vere ci brucia dentro! Che voglia di trasparenza! Di leggere in trasparenza! Essere capace di vedere oltre. Scavalcare il muro d’ombra di ciò che appare, per cogliere l’intimità di ciò che vive nel profondo delle cose. Incalzare l’ulteriorità della persona che ti sta dinanzi, per intuirne il mistero. Anche noi siamo assetati di trasparenza. Vogliamo vedere oltre.”

Partiamo da noi stessi, da ciò che siamo e abbiamo nel cuore.

Se prima non lasciamo che Dio entri nel nostro cuore per fare ordine, come possiamo pensare che possa essere così nella nostra Chiesa, nelle nostre comunità, nei luoghi della nostra quotidianità?

Non dimentichiamo che il primo luogo in cui incontro Dio è il volto dell’altro, il suo cuore imperfetto, come il mio. Ascolta! Accogli!

Togliti i sandali, perché il luogo sul quale stai è terra santa … togliti i sandali: la terra, la tua vita, la tua vocazione, l’altro, è terra santa. Santo diventa, è, e rimane un uomo totale che ha la forza di rimanere servo del proprio sogno. Ostinarsi nel sogno. Solo allora si desidera l’impossibile.

E qual è il sogno? Quello di sentire ventiquattro ore su ventiquattro questo Dio come comunicazione, come vita, come equilibrio, come maturazione, come paradiso, come regno, come vita.

È questa la vera ricchezza, il senso del nostro “si”: con la tua vita, annunciare il Regno, la capacità di dire che Dio è Dio, la capacità di sentirsi in Lui, nella sua mano.

Sia sempre questa la nostra tensione, la nostra passione.

“Il primo giorno dopo il sabato.” E poi “otto giorni dopo.”. Mi colpisce questo ritornare di Gesù, del Risorto. Le porte erano ancora chiuse. E lui ritorna. Ne mancava uno. Non dice: peggio per lui. E sapeva che cosa Tommaso aveva nel cuore, sapeva della sua resistenza a credere. Nei cenacoli della nostra incredulità, dei nostri dubbi, delle nostre incertezze, delle nostre chiusure: non ci lascia perdere. Lui ritorna. Ritorna per noi che assomigliamo a Tommaso.

Tommaso, il Vangelo ce lo ricorda, è chiamato Didimo, cioè gemello. Gemello forse in tanti sensi. Forse anche nel senso che in lui la fede è gemella con l’incredulità, è gemella con il dubbio.
E gemello anche nostro: gemello cioè di tutti coloro che non erano là, gemello di tutti coloro che ricevono l’annuncio della risurrezione, senza aver visto. Noi siamo tra questi. Nostro gemello Tommaso.
Gemello anche con la sua storia. Una storia, come le nostre, segnata da cammini per lo più tortuosi. Quello di Tommaso non è un cammino lineare. Il suo cammino inizia con molta foga, poi lo smarrimento, poi ecco che viene riaccolto dal Signore e giunge all’essenza della fede.
Non sa più la strada di Gesù: dalla certezza è passato all’insicurezza, dalla direzione certa allo smarrimento.
Tommaso è arrivato al culmine della vicenda, al culmine dello smarrimento, al punto più basso della confusione.
Colui che aveva posto le condizioni si apre senza condizioni, crede senza toccare, crede senza mettere il dito, crede alle parole di Gesù. Confessa: “Mio Signore e mio Dio”. Questo è il traguardo, il traguardo di tutti coloro che sono gemelli, gemelli del credere e del dubitare, il traguardo di tutti noi che ci portiamo dentro, come Tommaso, lungo il cammino, questo gemellaggio.

Il cammino e l’approdo. Il cammino ci appartiene e va verso un approdo: “Mio Signore e mio Dio”. Un approdo che non è frutto di un controllo. Di mani o di dita.

Da che cosa è nato quell’approdo? Ha capito che Gesù conosce ciò che vive nel suo cuore, conosce i pensieri del suo cuore. Puoi abbandonarti, puoi dare in mano la vita a uno che conosce che cosa vive nel tuo cuore. A uno che riconosci per il timbro della voce. Nasce così l’affidamento.
Non ci siamo mai chiesti perché oggi sia così problematico per molti affidarsi alla Chiesa? Davvero siamo tra coloro che conoscono ciò che vive nel cuore delle donne e degli uomini del nostro tempo? E siamo riconosciuti dal timbro della voce?

In qualche modo alla fine del brano Tommaso è rimproverato da Gesù. Ma è un rimprovero pedagogico: impara da questa esperienza, impara a riconoscere la vera umiltà che non risiede solo nell’esplicitare il disagio e il dubbio ma nel cercare a tutti i costi la comunione, nel cercare di condividere tutto!

Il dubbio non può allontanarci da noi stessi e dagli altri ma deve diventare ricerca con gli altri. E questo non è detto solo a Tommaso ma anche agli altri. Gli altri hanno bisogno di sapere che l’esperienza di incontro è personale e nessuno può sostituirsi all’altro, nessuno può rispondere al posto dell’altro e chi fa più fatica ha bisogno di essere atteso, incoraggiato.

In questa dinamica, in questo processo che interessa il gruppo dei discepoli del Risorto, si fa presente di nuovo Gesù. Allora non è lì solo per Tommaso: la grazia del dubbio, la grazia della fede che si interroga, non è beneficio solo per uno ma diventa beneficio di tutti. Aiuto a pensare. Aiuto a essere liberi di capire, di seguire il Signore con la propria sincerità, con le forze che dà lui.

Il dubbio di Tommaso non è sulla missione affidata al gruppo dei discepoli ma è la necessità di vedere lui stesso il Signore. Dovremmo sentire anche noi la stessa inquietudine di Tommaso: gli altri parlano perché hanno visto, noi non dovremmo parlare per sentito dire.

Ora i miei occhi ti vedono: cioè ho bisogno e avrò sempre bisogno di incontrarti. La fede è realtà di incontro ed è fatta di incontri, riconoscimento, ascolto, risposta alla missione. Non è altro. Il fatto che Tommaso espliciti questa esigenza al gruppo e nel gruppo, e il fatto che il Risorto ritorni mentre sono tutti riuniti compreso Tommaso, ci lascia capire che anche i nostri incontri fanno la nostra fede. I nostri incontri possono diventare un appuntamento per il Signore.

Una comunità che non sente il bisogno di momenti di condivisione dell’esperienza di fede, una comunità che non sente il bisogno di sostare insieme sulla Parola, una comunità che non comunica insieme l’inquietudine e la gioia per il Risorto, è una comunità immobile.

Non ha senso tenere chiuse le porte dei nostri cenacoli.

Una fede senza rischio, senza domanda, senza inquietudine, senza affetto, senza intelligenza, senza prova, senza crisi, che non interroga la corresponsabilità dei credenti, è una fede incapace di condivisione e di accoglienza. È una fede incapace di ospitare Dio nella presenza dell’altro. È una fede chiusa, incapace di volgere lo sguardo al mondo intero.

Credere diventa un cammino, una missione! Perché credere non è facile. La presenza e la domanda di Tommaso fanno crescere anche la fede degli altri discepoli. Non solo noi abbiamo bisogno degli altri, anche gli altri hanno bisogno delle nostre domande, dei nostri passi, delle motivazioni del nostro credere, sperare e amare. Abbiamo bisogno di condividere i luoghi della comunione, di vivere una reciprocità profonda che si chiede le ragioni, il senso.

La comunione diventa prova, si è fatta visibile e possibile. La comunione è tangibile. La comunione ci chiama a vivere della presenza del Risorto.

Le nostre morti interiori, piccole o grandi che siano, la morte delle nostre attese, i fallimenti, i disincanti, le ferite, il ricordo anche violento di quello che ci ha segnato, l’incapacità profonda di uscire da un buio che attanaglia il cuore, la forte consapevolezza del nostro peccato, hanno bisogno di cedere il passo alla domanda al Signore nel dialogo con lui, cedere il passo al dialogo con l’altro di cui ci fidiamo, consapevoli di essere parte di una comunità che il Signore conosce e ama, in cui è presente, nonostante i limiti e le eventuali chiusure.

Abbiamo bisogno di tornare con fiducia al segno dei chiodi, al costato ferito. Gesù non torna solo per Tommaso, torna per noi, per ciascuno di noi. Viene a dirci: guarda in me le tue ferite. Metti il dito, tocca. Non sei solo, non eri solo. Ora puoi non subire, non ripiegarti su te stesso, ora puoi dare un senso, ricominciare a camminare, ora puoi ordinare i passi uno dopo l’altro, ora puoi credere in te e anche in me. Ora puoi rispondere. Ora mi vedi, e se lo desideri e se lo chiederai, mi vedrai ancora, come non te lo aspetti, ma mi vedrai e sarà la beatitudine del cuore!

+ don Mimmo, Vescovo