Intervento del vescovo della Diocesi mons. Battaglia all’Assemblea di Inizio Anno Pastorale 2018-2019 “Si prese cura”

“Si prese cura”

  • Stasera presenterò le linee ufficiali per il nuovo anno pastorale 2018-2019. Comunicherò il calendario che contiene non solo date ma percorsi da avviare nelle parrocchie e nelle foranie. Percorsi di rinnovamento, perché la sinodalità, syn odos (cammino insieme), la prossimità, diventino cuore della missione (cf Lettera pastorale 2017-2020): questa è la conversione pastorale continua che ci attende. Conversione del nostro ascoltare, del nostro valutare, del nostro agire, conversione di mentalità, conversione delle nostre comunità, delle strutture ecclesiali diocesane e parrocchiali. Il cammino è lungo ed è possibile se radicato nella fiducia, nella costanza, nella carità che crede e spera.

Avremo pochi incontri diocesani (solo le celebrazioni della Marcia della Pace il 31 dicembre, del Mercoledì santo il 17 aprile, del Corpus Domini il 20 giugno), privilegeremo le parrocchie e le foranie.

Si vuole dare la possibilità, agli operatori pastorali, ai parroci, a tutti coloro che sono impegnati e interessati, di essere presenti, di essere costanti nell’impegno assunto, valutando le priorità, venendosi incontro gli uni gli altri.

Carissimi tutti, è giunto il momento di dare tutta la nostra disponibilità perché le nostre comunità possano ridisegnare il volto di una Chiesa che vive radicata in questo tempo, in questo territorio, capace di abbracciare la condizione, le speranze, le difficoltà, di tutti i suoi figli. Siete voi il suo sguardo missionario, come rami innestati nella vera vite che è il Signore Gesù, siete chiamati a portare frutti di carità, di speranza, di annuncio, ovunque. Il Signore stesso opera con noi, non siamo soli. Ci chiama e ci manda. Senza dimenticare mai che l’opera di Dio è più grande di noi e ci precede sempre.

Ci sentiamo in comunione con tutta la Chiesa che sta vivendo la sinodalità come programma fondamentale, obiettivo e fine del rinnovamento pastorale. «La sinodalità non designa una semplice procedura operativa, ma la forma peculiare in cui la Chiesa vive e opera» (C.T.I., La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 42).

  • La cura della personale spiritualità, dello stare davanti al Signore, sarà la vera forza del rinnovamento. È lo stare in ginocchio davanti a Lui che ci permette di stare in piedi nel quotidiano. Fondamentale è ritrovare la dimensione contemplativa della vita.

Dovremmo chiederci se nelle nostre comunità parliamo solo dopo aver ascoltato. Ascoltare non è sentire le parole, è entrare in quelle parole, entrare in chi sta parlando. Non è detto che quando ripetiamo integre le parole della fede, abbiamo anche ascoltato. Senza ascolto non esistiamo come persone e nemmeno come popolo. Non esistiamo nemmeno come Chiesa. Chiacchieriamo a vuoto. Solo contemplando il volto di Cristo è possibile trasformare l’ascolto in preghiera, condivisione, coraggio di osare. La dimensione contemplativa sia davvero prioritaria; essa prende insieme la cura della relazione con Dio, con l’altro, con il territorio, con la comunità, ed è fonte di una condivisione reale e possibile di ciò che in coscienza lo Spirito suggerisce. Abbiamo bisogno di radicare il nostro sguardo nello sguardo del Signore. Vivere la comunione con Dio e con i fratelli come dono significa assumere la sinodalità come stile. La comunione chiama a costruire processi di fraternità, è come una spinta interna nelle comunità a uscire per promuovere la formazione al bene comune, per contaminare della gioia missionaria gli ambiti delle politiche sociali, economiche, territoriali. «In tutti i battezzati, dal primo all’ultimo, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare» (Evangelii gaudium, 118).

Laici, sacerdoti, religiosi che si confrontano quotidianamente con la Parola di Dio non possono per esempio restare indifferenti di fronte alle logiche arbitrarie dilaganti sulla questione dell’immigrazione. È urgente che impariamo a pensare in termini di accoglienza, per dare voce a chi voce non ha, perché “anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto” (cf Lv 19,34).

  • Dunque tre le linee essenziali che dovranno tracciare i percorsi del cammino sinodale, che nasce e si rigenera nella reciprocità dell’ascolto, dell’annuncio, del servizio: la cura della relazione, della prossimità, dell’accoglienza. Questi tre principi sono sintetizzati nel riferimento biblico del Samaritano: “Si prese cura” (cf Lc 10,34). La relazione, che si realizza nella prossimità all’altro, a tutti, nell’accoglienza concreta gratuita e gioiosa, sarà la modalità di lavoro e l’obiettivo che dovremo perseguire nell’individuare percorsi di ascolto della Parola, di annuncio, di servizio. Impostare il lavoro in maniera sinodale significa imparare a pensare insieme le possibilità concrete per il coinvolgimento di altri, sentendo insieme, partendo dal “noi” e non per noi stessi. Non possiamo ragionare più in termini di pastorale di settori, di gruppi individuali, di categorie, di ruoli, di competenze. Abbiamo bisogno di pensare in termini di condivisione di ciò che siamo e che abbiamo, in dialogo, per rispondere alle sfide concrete del nostro tempo.

Come imparare a camminare valorizzando le differenze, i carismi molteplici, i talenti? Come aiutare le nostre comunità a maturare, a diventare case accoglienti, scuole di comunione?

Affido questi tre principi alle parrocchie perché li assumano nel loro lavoro pastorale. Tutto il piano pastorale sia rimodulato e attraversato dalla domanda concreta del come prendersi cura della relazione, della prossimità, dell’accoglienza di tutti a partire dai più deboli e dai giovani.

  • “Si prese cura”: è il Signore che per primo si è preso cura del suo popolo e si prende cura di noi; è Lui che ha preso l’iniziativa, è Lui che ci precede e si fa prossimo, accoglie nel suo abbraccio misericordioso, rialza. È lui che sempre si consegna a noi. Prendiamoci cura del Signore.

In una Chiesa sinodale questa cura ha la sua espressione più autentica nella cura della vita.

Quante volte siamo rimasti chiusi nel tempio, a parlare dal pulpito delle nostre convinzioni, in una pastorale di conservazione, senza metterci realmente accanto all’altro, senza creare quella relazione orizzontale di cui Gesù stesso è maestro e testimone.

Relazione, prossimità, accoglienza, sono tre parole che tessono le trame del sogno di Dio. Un Dio che sogna non è un Dio potente, che guarda il mondo dall’alto della sua maestà ma un Dio fragile che si fa uomo, un Dio che capovolge le logiche mondane del potere e della ricchezza affinché le nostre molteplici povertà siano la porta spalancata del regno e la fragilità diventi l’opportunità da cui far ripartire la vita.

Noi abbiamo ristretto l’orizzonte dell’accoglienza pensando che accogliere sia dare cose materiali, che pure sono importanti, ma dimenticando che accogliere, prima di tutto significa onorare la persona, il valore di quella persona, la sua ricchezza nascosta. Prima di ogni cosa, prima di ogni teorico principio, ci sono i nomi, i volti, le storie. Non “i poveri generici”, ma quelli che incontro; non “i malati”, ma i volti segnati dal dolore; non “i problemi sociali”, ma la storia concreta di chi ha incrociato il mio cammino. Il cammino della Chiesa sinodale si concretizza, allora, nell’essere Chiesa che intercetta, che va incontro alle fragilità e alle singole storie. Una Chiesa che non ha paura di percorrere le strade difficili e più strette, che sa gioire e condividere, commuoversi e meravigliarsi. Una Chiesa, più che assertiva, discepola della fragilità. Non la Chiesa che giudica o la fa da padrone sulla fede degli altri ma la Chiesa della compassione, la Chiesa che serve perché entra nelle case, non parla da fuori. Da come parla, soprattutto dei lontani, dei cosiddetti lontani, capisci se una Chiesa li conosce o no.

Questa è la Chiesa che non ha nulla a che fare con coloro che caricano di pesi insopportabili i piccoli, i poveri e gli oppressi, è la Chiesa che ne rivendica anzi la dignità. Chiesa sorella che conosce l’arte di rallentare il passo e porta nel suo cuore la fatica dell’ultima pecora, quella gravida e quella ferita. «Non capisco le comunità cristiane che sono chiuse in parrocchia. Uscire per annunziare il Vangelo. È più facile restare a casa, con quell’unica pecorella, pettinarla, carezzarla. In questa cultura abbiamo una sola pecorella, siamo minoranza: sentiamo lo zelo di uscire e trovare le altre 99? Ma a noi cristiani il Signore ci vuole pastori e non pettinatori di pecorelle. Noi cristiani dobbiamo uscire da noi stessi, uscire dalle nostre comunità e andare lì dove donne e uomini vivono e lavorano» (Papa Francesco alla Diocesi di Roma).

  • Insieme ai tre principi che esprimono la cura che ha messo in atto il Samaritano, è chiesto a tutta la comunità diocesana, agli uffici, alle parrocchie, alle foranie, di assumere la priorità dei giovani come attenzione e sfida pastorale comune. È nostro dovere permettere ai giovani di essere protagonisti del cambiamento e i giovani possono realizzarlo. Avremo bisogno del tempo necessario per fermarci e ripensare come vivere una prossimità tale con i giovani da permettere loro di farsi prossimi prima di tutto dei loro coetanei, imparando in questa via ad accogliere loro stessi le sfide della vita. Abbiamo bisogno di ascoltarli, di farci compagni di strada, di studiare come comunicare con loro, di vedere che cosa vuol dire relazione, accoglienza, in riferimento a loro, di riscoprirli soggetti della formazione. Significa credere nei giovani!

Scriveva Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte (n. 9), circa il giubileo dei giovani: i giovani sono per la Chiesa «un dono speciale dello Spirito di Dio. C’è talvolta, quando si guarda ai giovani, con i problemi e le fragilità che li segnano nella società contemporanea, una tendenza al pessimismo. Il Giubileo dei Giovani ci ha come “spiazzati”, consegnandoci invece il messaggio di una gioventù che esprime un anelito profondo, nonostante possibili ambiguità, verso quei valori autentici che hanno in Cristo la loro pienezza. Non è forse Cristo il segreto della vera libertà e della gioia profonda del cuore? Non è Cristo l’amico supremo e insieme l’educatore di ogni autentica amicizia? Se ai giovani Cristo è presentato col suo vero volto, essi lo sentono come una risposta convincente e sono capaci di accoglierne il messaggio, anche se esigente e segnato dalla Croce. Per questo, vibrando al loro entusiasmo, non ho esitato a chiedere loro una scelta radicale di fede e di vita, additando un compito stupendo: quello di farsi “sentinelle del mattino” (cf Is 21,11-12) in questa aurora del nuovo millennio».

La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione. I giovani hanno bisogno di testimoni credibili. Pensate quanto è bello testimoniare la gioia del nostro incontro con il Signore e renderci così credibili: è la credibilità a essere contagiosa!

Ogni mese incontrerò i giovani nelle quattro foranie proponendo loro una Lectio divina, per metterci insieme in ascolto del Signore e in ascolto reciproco tra noi. Ho scelto di incontrare i giovani che già frequentano le nostre comunità parrocchiali perché ritengo che la loro formazione sia essenziale e perché solo così i giovani, soprattutto, possono farsi testimoni e missionari nei confronti degli altri giovani. Chiedo anche a tutte le comunità parrocchiali di pensare insieme i modi concreti per intercettare i giovani che non frequentano e che sono la maggior parte: come andare loro incontro dando valore all’ascolto?

  • Le parrocchie sono il vero soggetto del rinnovamento pastorale. Esse hanno bisogno di ritrovare il loro volto missionario, perché lo ritrovi l’intera comunità diocesana. Questo sarà possibile solo uscendo, andando verso tutti, abitando il territorio, vivendo la relazione come via prioritaria dell’annuncio e della missione. Non dobbiamo dimenticare che la Chiesa è nata in forza della mediazione reciproca dell’esperienza del Signore Risorto.

Nelle parrocchie si respiri il senso della corresponsabilità, tra i laici e con il parroco, imparando a riconoscere talenti, carismi, perché persone nuove possano mettersi a servizio della comunione, della comunità. Il volto di una parrocchia non è solo il volto del parroco, ma l’insieme dei volti di tutti i parrocchiani, e in particolare, di quei parrocchiani che nella comunità mettono tempo ed energie a servizio degli altri. Il parroco non può essere presente dappertutto o occuparsi di tutto. Deve mettersi in gioco tutta la parrocchia. Il presbitero, nella visione del Vaticano II, non è colui che possiede, ma colui che presiede l’evangelizzazione, la celebrazione e la vita di carità. Non è la fonte, che è solo Cristo, ma colui che aiuta a scoprire e a vivere in modo costruttivo i doni Dio. Il parroco sarà meno l’uomo del fare e dell’intervento diretto e più l’uomo della comunione; la sua passione sarà far passare i carismi dalla via della collaborazione alla via della corresponsabilità, da figure che danno una mano a presenze che pensano insieme e camminano dentro un comune progetto pastorale. Non basta parlare di collaborazione dei presbiteri con i laici è invece il momento di strutturare una vera e propria prassi della corresponsabilità, che rispecchia l’ecclesiologia del popolo di Dio come soggetto della missione. Saranno proprio i segni concreti della corresponsabilità ad attirare altri, a far nascere il desiderio di fare lo stesso (cf Lc 10,37).

Perché possano funzionare, gli organismi di partecipazione, quali i Consigli pastorali, i Consigli per gli affari economici, non devono essere luoghi organizzativi e di decisioni operative, ma devono diventare prima di tutto luogo di confronto pastorale, di approfondimento degli argomenti, per poter insieme elaborare delle risposte: corresponsabilità significa rispondere insieme. Questi organismi non sono una cassa di risonanza di decisioni già prese da qualcuno, né luoghi in cui seguire una logica di maggioranza o di minoranza: la Chiesa è comunione sinodale! La comunione vale più dell’aver ragione. Nessuna chiesa, nessun matrimonio, nessuna amicizia, nessuna relazione autentica, possono stare in piedi senza scegliere mille volte la comunione anziché l’aver ragione. Se il Signore avesse considerato il torto e la ragione come parametri assoluti non sarebbe sceso a cercare e amare la pecora perduta, a salvare e amare ciascuno di noi.

Chiesa sinodale è dunque Chiesa dal volto familiare che accoglie e dove ci si sente accolti. Più una parrocchia vive le relazioni in modo familiare e più sarà capace di accogliere nel suo grembo anche coloro che normalmente sono chiamati lontani, perché in una famiglia non ci sono lontani e vicini, ma tutti meritano attenzione. L’accoglienza è come la porta esterna di una casa: se è aperta o accessibile, le persone possono entrare nelle stanze, visitare la casa, parlare e ascoltare, partecipare alla mensa; se la porta esterna è chiusa, la casa può essere anche bellissima, arredata magnificamente e pulita, ma diventa inaccessibile. Meglio una casa modesta ma aperta che una casa lussuosa ma sigillata. Perdonatemi, ma questo vuol dire anche che le porte delle nostre chiese parrocchiali devono restare aperte, non solo quando ci sono le celebrazioni!

La logica dell’accoglienza è la base per poter aiutare le persone a camminare ed è contraria a ogni altra logica che guarda agli interessi, all’autodifesa, e ai profitti di ogni tipo. La Chiesa non sia un’azienda: nell’azienda contano le prestazioni, nella famiglia le relazioni; nell’azienda chi non produce non trova spazio, nella famiglia un anziano, un ammalato, meritano un’attenzione maggiore rispetto agli altri; nell’azienda contano i numeri, nella famiglia le persone; l’azienda si muove sull’efficienza e la produzione, la famiglia sull’efficacia e sugli affetti. Solo la cura delle relazioni può sfondare il muro dell’indifferenza e del calcolo. In questo senso anche le iniziative hanno valore se prioritarie sono le relazioni e non la smania dell’organizzazione. Le relazioni sono autentiche quanto più sono aperte e vanno incontro ad altre relazioni, fino a raggiungere tutti e perché nessuno si senta escluso.

  • Gli uffici diocesani, che in questi mesi hanno lavorato nei Tavoli della condivisione (Tavolo della comunità “orante”, Tavolo della comunità “in piedi”, Tavolo della comunità “in cammino”), sono chiamati a maturare nella condivisione continua dei percorsi che metteranno in atto, e sono chiamati a uscire, ad andare incontro alle parrocchie attraverso l’anello fondamentale delle foranie. Comincerà un tipo di sensibilizzazione che privilegia l’incontro: l’ufficio missionario, l’ufficio famiglia, in particolare per le coppie ferite, l’ufficio catechistico, la pastorale giovanile, cercheranno di raggiungere per i propri ambiti alcune parrocchie per animare e conoscere i passi fatti e da fare insieme. Chiedo a tutti gli altri uffici di muoversi in questa direzione ma soprattutto chiedo ai Tavoli di costruire percorsi condivisi.

Questo modo di procedere promuoverà l’esigenza che i cammini formativi di ogni ambito della pastorale, dalla catechesi alla Caritas, si incontrino nella lettura delle domande concrete che vengono dalla realtà del territorio e della parrocchia, e nelle modalità specifiche dell’aver cura e del farsene carico.

– Il Tavolo della comunità orante ha come finalità che l’ascolto della Parola e la partecipazione all’Eucaristia diventino concreta e sincera accoglienza del Signore, dell’altro, dei piccoli, dei lontani, dello straniero, per imparare a condividere i doni, per imparare a condividere ciò che fa vivere.

Chiedo al Tavolo orante, oltre alla cura per gli appuntamenti da agenda, di costruire percorsi di ascolto della Parola nelle foranie, a partire dalla presa in carico dei momenti importanti che abbiamo già programmato. In Quaresima proporrò la Via Crucis nelle quattro foranie: vi chiedo di coinvolgere le rispettive parrocchie preparando insieme il momento.

– Il Tavolo della comunità in piedi ha come finalità che l’annuncio sia veramente cura e possa raggiungere tutti.

Chiedo al Tavolo in piedi in particolare, di costruire percorsi condivisi, perché stimoli tutta la comunità a farsi carico dell’annuncio.

– Il Tavolo della comunità in cammino ha come finalità che la cura della prossimità si realizzi concretamente nella preferenza dei più deboli perché siano loro soggetti dell’annuncio, del cambiamento, per sé stessi e per la comunità.

Chiedo al Tavolo in cammino di superare la logica dell’assistenzialismo e di dare corpo a una progettualità che renda protagonisti del cambiamento le persone che nel tempo presente vivono disagi particolari. Chiedo il coraggio di trasformare le fragilità in opportunità, facendo in modo che tutta la comunità se ne faccia carico e il problema di uno diventi il problema di tutti.

– Il cammino dei tre tavoli già converge nell’esigenza di una formazione condivisa, integrale, radicata nell’educare alla gratuità, alla solidarietà, alla carità.

Perciò si promuova ancora di più la formazione continua dei catechisti, degli operatori Caritas, di tutti gli operatori pastorali, delle equipe degli uffici.

Come Chiesa abbiamo bisogno di mettere insieme le risorse, le conoscenze, le competenze, per non nasconderci davanti alle sfide e rendere sempre ragione della speranza che è in noi, rendere più viva nell’annuncio la bellezza della vita come vocazione. Ma soprattutto abbiamo bisogno di ricominciare a sentire l’altro, la sua vita, la sua presenza, come importanti per noi. Il Samaritano può indicarci che cosa è compassione, perché le ferite della nostra terra, della nostra gente, si trasfigurino e diventino segni di resurrezione.

Accogliamo insieme il compito importante di educare le nostre comunità parrocchiali a farsi prossime e accoglienti verso tutti, a riconoscere i disagi presenti, a intervenire, a dare un nome alle piaghe sociali presenti, alle nuove povertà. La ricerca di giustizia si apra a una solidarietà che non sia solo un sentimento ma un impegno concreto e costante, espressione della carità, perché chi è caduto possa rialzarsi e ciascuno possa farsi responsabile dell’altro, del bene possibile.

  • Le foranie dovranno diventare il luogo della prossimità concreta alle parrocchie che fanno più fatica a rispondere o che sono più svantaggiate. Gli incontri foraniali dovranno anche rinsaldare la relazione tra le parrocchie e con la diocesi.
  • I vicari foranei coordineranno il lavoro nelle foranie e faciliteranno la condivisione delle parrocchie.
  • Incontrerò i sacerdoti una volta al mese nelle foranie per costruire processi di dialogo, di reciprocità, di fraternità sacerdotale, di ascolto e condivisione. I sacerdoti a loro volta sono chiamati nelle parrocchie ad accompagnare, ascoltare, sostenere, valorizzare, a contemplare il volto di Cristo e il volto del popolo di Dio a loro affidato.

Approfitto di questo momento per dare il benvenuto nella nostra Chiesa a don Matteo Prodi dell’Arcidiocesi di Bologna. Per un anno don Matteo sarà in mezzo a noi a servizio di questa nostra Chiesa: a lui ho chiesto di promuovere la scuola di formazione all’impegno sociopolitico, coadiuvando inoltre la Casa per la Pace e affiancando don Franco Pezone nella comunità di San Salvatore Telesino.

  • Entro fine ottobre, ogni parrocchia dovrà avere il Consiglio pastorale, il Consiglio per gli affari economici, la Caritas. Il Consiglio pastorale parrocchiale ha come finalità la partecipazione e la corresponsabilità. Non più la semplice collaborazione dei laici ma la corresponsabilità nel confrontarsi, valutare, discernere le vie di azione nella propria comunità, nell’ambito dell’ascolto, dell’annuncio, del servizio.

Sarà consegnata stasera a tutte le parrocchie la relazione sui giovani che ho tenuto ad Assisi, perché possa diventare materia di riflessione nei Consigli pastorali e non solo.

  • Entro la fine di dicembre costituiremo il Consiglio Pastorale diocesano composto soprattutto da giovani.
  • Solo lo sforzo di camminare insieme aiuterà la capacità di discernere in maniera oggettiva, impiegando tutte le nostre potenzialità e risorse. Dovrà crescere il coinvolgimento di tutti, il senso della corresponsabilità, dell’unità, attraverso la diversità di doni, carismi, capacità, competenze. Non mi riferisco tanto alle competenze tecniche ma a quelle che si acquisiscono nella cura della comunione, quelle che si sviluppano e maturano proprio lavorando insieme.

Papa Francesco nell’Evangelii gaudium ci ricorda i criteri che dobbiamo aver presenti per la cura del bene di tutti e di ciascuno, e che sono frutto dell’ascolto dello Spirito. Scrive il Papa: «Quattro principi che orientano specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune» (n. 221). 1. Il tempo è superiore allo spazio («Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. (…) Uno dei peccati che a volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli spazi di potere al posto dei tempi dei processi. (…) Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi», n. 223); 2. L’unità prevale sul conflitto («Il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa resta frammentata. (…) Sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo», n. 226); 3. La realtà è superiore all’idea («Questo criterio ci spinge a mettere in pratica la Parola, a realizzare opere di giustizia e carità nelle quali tale Parola sia feconda», n. 233); 4. Il tutto è superiore alla parte («Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. (…) È necessario affondare le radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia», n. 235).

  • Vi affido il senso della condivisione, abbiatene cura sempre, così mi aspetto che lavoriate e lavoriamo insieme: condividere vuol dire dividere con l’altro l’impegno, la finalità, lo sguardo, le speranze, le preoccupazioni, le difficoltà, le ansie, i successi e i fallimenti, i punti di forza e le fragilità; significa mettere in comune idee, percezioni, letture delle situazioni, i segni intravisti, soprattutto le potenzialità, perché, lo sappiamo, è più facile vedere quello che non va, più difficile è proporre obiettivi possibili e condivisibili che aiutino le persone a maturare integralmente; condividere è pensare a partire dal noi, non a partire dalla mia parrocchia, dal mio ufficio, dal mio impegno, dal progetto che devo presentare, dalla riuscita che intanto io mi devo garantire, o dal tempo che devo difendermi. No, condividere vuol dire fare spazio alla relazione, decidere a partire dalla relazione, spendere tutto per la relazione, impegnarsi nelle relazioni, accogliere i conflitti e le cadute per superarli e per credere ancora di più nella comunione. Il noi non deriva dall’aggiunta del tu, dell’altro. Il noi si costituisce dentro di me e diventa mio punto di partenza e di arrivo quando accolgo l’altro e la relazione con lui come senso nuovo della mia vita. Chiediamo a Dio la grazia dell’accoglienza reale dell’altro nella nostra vita, la grazia di pensare in maniera relazionale. Siamo chiamati ad attivare processi di formazione continua di questo tipo. Potessimo ripartire stasera e ogni volta avendo a cuore le ragioni dell’altro, avendo a cuore il potersi incontrare, parlarsi, ascoltarsi. Condividere vuol dire camminare e si cammina davvero solo insieme.

Tutto questo processo è solo all’inizio. Abbiamo molto da lavorare, tutti. Abbiamo da lavorare sul piano delle proposte e dei percorsi.

 

  • Vi chiedo di portare tutto questo prima di tutto nella vostra preghiera perché l’elaborazione del programma che vi consegno nasce dall’ascolto reciproco, dalla condivisione delle preoccupazioni e delle speranze del lavoro pastorale. Lo Spirito possa ispirare i passi concreti, l’esigenza di una condivisione reale, di una maggiore unità; possa infondere entusiasmo e senso di corresponsabilità; possa infondere la passione e il gusto della formazione; possa infondere l’ardore della carità, nel cercare Dio e nel cercare i fratelli.

Affidiamo questo anno al Signore della vita! Affidiamogli gli appuntamenti, l’attesa di ritrovarci insieme, sapendo che Lui stesso ci attende per fare piena la nostra gioia.

Affidiamo al Signore della storia questo tempo che si apre, perché ne possiamo riconoscere la grazia. Trasformiamolo in Kairos, in tempo favorevole, perché la condivisione di un progetto diventi condivisione di senso, di vita, di salvezza donata.

Affidiamogli il nostro “fare” perché ci sorprenda ogni giorno come germoglio che spunta, segno di una nuova primavera dello Spirito.

Affidiamogli il nostro rispondere insieme, la nostra disponibilità, perché rinascano sempre nuovamente dalla gratitudine per la Sua presenza sanante, per il Suo passare libero e gratuito, per il Suo chiamarci a stare e a camminare con Lui.

Vi chiedo di portare nelle parrocchie e nelle foranie la nostra programmazione, perché tutti ne vengano a conoscenza, e di farvi soprattutto mediatori della gioia del conforto e della consolazione, gioia che scaturisce da ogni reciproco ritrovarsi, scorgendo nel volto dell’altro la carezza di Dio, l’attesa di Dio.

A Maria, che ha fatto dell’attesa il suo sì, grembo per Dio e per tutti i suoi figli, chiediamo di custodire in noi l’ascolto, la cura, il desiderio, il sogno di Dio. Lei, che è beata perché ha amato, sperato, creduto, doni al nostro cuore la capacità di infinito.

Il Signore infonda in noi la gioia del nuovo inizio, la pazienza dei piccoli passi, il coraggio di osare, uno sguardo profetico che sappia riconoscere i segni del Regno presente e la speranza promessa!

Dio vi benedica! Benedica dall’alto il nostro cammino!

† don Mimmo, vostro vescovo