Carissima Ilaria,
ho pensato di dedicare a te questa lettera di Pasqua, a te che non hai sprecato neanche uno dei quaranta giorni di Quaresima, sopportando quel macigno che porti sul cuore e dandogli, di volta in volta, un nome e un volto. A te che non sei scappata dinanzi alla paura, come i discepoli timorosi di perdere la vita, ma sei rimasta lì con le altre donne percorrendo tutte le stazioni del dolore facendo delle lacrime la tua Via Lucis, con la certezza dentro al cuore che, nonostante la notte sembri essere troppo buia, sorgerà sempre un’alba nuova a rischiararla.
Hai imparato a conoscere tutte le sfumature del dolore: mancanza, nostalgia, vuoto, non senso, strati e strati di tristezza, voglia di chiudersi dentro il proprio guscio e non uscirne più… Ma, d’improvviso, mentre pensavi che sarebbe stato meglio morire anche tu, piuttosto che essere ancora come “condannata” a vivere, ti ritornarono alla mente le parole del Vangelo: “Non cercare tra i morti Colui che è vivo!”.
Una voce sottile e delicata infranse il silenzio di quella notte e ti parlò così:
“Io, la speranza, sono nata in un meriggio oscuro, su un brullo colle bagnato dal sangue, quando tutti in coro ripetevano: tutto è perduto, non c’è nulla da fare, il Sognatore è morto, i sogni sono finiti.
Nacqui dal ventre della morte. Perciò la morte non può distruggermi. Sono immortale perché sono figlia primogenita del Dio immortale. Se migliaia di volte mi diranno che tutto è perduto, migliaia di volte risponderò che c’è ancora tempo…”. (I. Larranaga)
Comprendesti allora ciò che accadde quel giorno nel Giardino a Maria Maddalena, quando confusa dal dolore non riconobbe il Signore che la chiamava… La scoperta del sepolcro vuoto è stata l’esperienza di un’assenza che dentro, prima o poi, sperimentiamo tutti. L’assenza improvvisa dell’altro, l’assenza improvvisa di Dio, l’assenza improvvisa di motivazioni, di forze, di quello che hai avuto finora. Diventa necessario, allora, poter dare senso e radici a quell’assenza, una forma a quel vuoto che disorienta e che oscura la possibilità di una resurrezione.
Facciamo sempre fatica a riconoscere il Risorto, perché pur essendo il Vivente non smette di essere il Crocifisso. Accanto all’amore c’è sempre l’immagine della croce. Le piaghe non scompaiono, restano, ma trasformate.
Come le tue piaghe, Ilaria cara. Quelle ferite che vedi sul corpo di Gesù sono proprio le tue; tutte, una ad una, raccontano la tua storia, la tua umanità ferita. Le ha prese su di sé e le ha redente e chiede a te di accoglierle ed abitarle affinché la tua vita possa essere riconciliata e profumare finalmente di Pasqua.
Coraggio! Prova ad incantarti ancora per la vita di ogni giorno, per le cose semplici di ogni giorno, apri ogni giorno la finestra alla speranza. Il macigno pesantissimo che ancora ti gravava sul cuore è stato ribaltato e non per forza tua… avevi ragione a dire che non ce la facevi… e quel sepolcro vuoto ora è varco per altri, annuncio di salvezza per tutti.
Le nostre morti interiori, piccole o grandi che siano, la morte delle nostre attese, i fallimenti, i disincanti, le ferite, il ricordo anche violento di quello che ci ha segnato, l’incapacità profonda di uscire da un buio che attanaglia il cuore, la forte consapevolezza del nostro peccato, hanno bisogno di varcare la soglia della speranza, di cedere il passo alla speranza.
Abbiamo bisogno di tornare con fiducia al segno dei chiodi, al costato ferito. Non fuggire dalla quotidianità, non aver paura di essa e delle sue fatiche perché è lì che accade l’incontro con il Signore, sulla strada di ogni giorno. Guarda il crocifisso e le tue ferite in lui. E lasciati guardare ed abbracciare per fare della tua fragilità, il luogo della speranza: la speranza dell’impossibile reso possibile.
Gesù viene a dirci: guarda in me le tue ferite. Metti il dito, tocca. Non sei solo, non eri solo. Ora puoi non subire, non ripiegarti su te stesso, ora puoi dare un senso, ricominciare a camminare, ora puoi ordinare i passi uno dopo l’altro, ora puoi credere in te e anche in me. Ora mi vedi, e se lo desideri e se lo chiederai, mi vedrai ancora, come non te lo aspetti… mi vedrai e sarà la beatitudine del cuore!
Non cercare i segni nel cielo, cerca quei segni sulla terra. È dentro di te la radice della gioia, della vita che non finisce, della vita interiore che apre spazi immensi, orizzonti senza fine, che scorge negli angoli bui delle strade gli angeli della notte, che scorge nelle delusioni la via del nuovo inizio, che scorge nella sofferenza la chiamata a farsi vicini.
Ti consegno le parole scritte dalla mano e dal cuore di un ebreo perseguitato dal nazismo, parole scritte nel buio di una cantina, in un rifugio dove la speranza aiutava a fare il passo successivo, a costruire l’aurora, pur se Dio sembrava tacesse: “Credo nel sole anche quando non splende, credo nell’amore anche quando non lo sento, credo in Dio anche quando tace”. Anche il silenzio di Dio può essere un dono per noi uomini, per la tua vita, impegno a liberarsi e a liberare, invito forte e severo a ritrovare la pace, a riscoprire la giustizia, a trasformare la storia.
Io credo nella primavera dei cuori, l’unica che non è questione di clima o di stagioni. La primavera dei cuori è un’operazione ardita: ogni pratolina, ogni margherita per sorridere lì, in mezzo al prato, contenta dei suoi colori, ha dovuto attraversare notti e deserti, ha dovuto ingaggiare battaglie senza pietà. La primavera dei cuori libera le possibilità. Per guarire non c’è niente come perdere la propria vita di sempre, quella con lo stesso volto di sempre, scommettendo sulla novità che ci abita, sulla virtù degli inizi. Fiorire, dunque. Fiorire è profonda responsabilità.
Riparti da innamorata, riparti con il cuore colmo di gratitudine per ciò che il Signore opera nella tua vita e nelle tue ferite, non darti mai per vinta, non arrenderti.
E sarà ancora Pasqua.
† don Mimmo, vostro Vescovo