Panchine rosse, l’alta meta dell’amore (articolo pubblicato sul n. 12 del mensile della Diocesi “Voci e Volti”)

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La panchina. Indica un luogo dove riposarsi, dove sostare, dove osservare, dove aspettare il proprio turno prima di entrare in campo per mettersi in gioco. Indica anche un luogo di poesia dove si apparta chi è innamorato. Compresi gli innamorati della vita. La panchina è luogo di attesa e di speranza. Quelle rosse che saranno collocate a Casaduni e a Cerreto Sannita (ed anche le scarpette rosse in ceramica dentro un’istallazione, ideata dagli alunni del Liceo Artistico “Carafa Giustiniani” sempre di Cerreto Sannita) vogliono scuoterci, sbatterci in faccia una realtà che spesso tendiamo a dimenticare o, peggio ancora, ad ignorare.

Sono verniciate di rosso per testimoniare il posto idealmente occupato da una donna vittima di femminicidio: è un custodire la memoria delle vittime e un segno educativo alla cittadinanza, ben piantato a terra, per sensibilizzare maggiormente sui temi della violenza alle donne, di un tipo di amore decisamente tossico (se di “amore” possiamo parlare) e delle pari opportunità. Su queste panchine, protagoniste di questa campagna di sensibilizzazione lanciata dagli Stati Generali delle Donne, in alcuni comuni italiani è stata inserita una frase di un grande scrittore, in altre è stato chiesto a giovani writers di dipingerle. Tutte vogliono diventare il simbolo di un percorso di riflessione condivisa.

IL SENSO DELL’AMORE. Chi picchia non sta amando. Chi considera la donna come un oggetto sempre a propria disposizione non sta amando. Chi vuole annientare l’identità di una donna non la sta amando. Chi terrorizza ed intimidisce non sta amando. Chi usa ed abusa non sta amando. Ricordarlo, di tanto in tanto, ci fa sempre bene. Non è retorico, non è banale, non è un eccedere di frasi fatte, anzi non è mai urlato abbastanza. Serve a non dimenticare e a mantenere sempre alta l’attenzione. Serve anche per rassicurare le vittime che, là fuori, non sono tutti uguali. Che l’inferno che hanno attraversato, attraverso l’assoggettamento e la violenza fisica o psicologica, e il successivo tormento interiore di chi è rimasto in vita, non esistono dappertutto. Ma solo in una cultura cavernicola (con rispetto parlando per gli uomini della caverne). Perché è proprio questo un uomo che picchia una donna: un incivile violento ed egoista che ha volutamente confuso l’affettività con il possesso a proprio uso e consumo, l’amore per l’altro con il comprare un prodotto al supermercato. Mentre l’amore consiste nel desiderare il bene della persona amata in maniera gratuita e disinteressata, anche quando non coincide con il nostro. Consiste nel ricevere donando e non nel dare per ricevere, non nell’aspettarsi di essere contraccambiati se non con l’autentica moneta dell’amore. Perciò l’amore è più forte anche del senso di “sconfitta” che può infliggerci un rifiuto o un abbandono. Perché, per amore, si è anche disposti a perdere e ad accettare la perdita, senza sentirsi feriti nella propria personalità o nudi nella propria dignità. Amare significa saper accogliere e lasciare andare, prendersi cura ed accompagnare. E’ la forma più elevata di libertà. Proprio l’esatto contrario del possesso. E’ una necessità che si sente. L’esatto contrario del dovere che viene imposto o che ci si impone. Amare è il motivo per cui esistiamo. Anzi amare va ben oltre l’esistenza. Perchè l’amore è davvero vero quando rimane vivo anche oltre la stessa vita. E quel rimanere vivo, automaticamente, esclude la presenza di ogni forma di violenza dal dizionario del verbo “amare”. Chi ama, come ha ripetuto più volte il vescovo Mimmo in quest’ultimo mese in occasione dell’ingresso dei nuovi parroci, ha scelto di non appartenersi.

Giovanni Pio Marenna