Cara Emanuela,
in questa terza settimana di Avvento ho scelto di scrivere a te, raccontandoti le fatiche di questi giorni, per condividere ciò che ho vissuto e mettendolo in relazione con quanto hai voluto confidarmi sul momento che stai attraversando.
Sono stati giorni particolari, ricchi di forti emozioni e contrasti interiori. Giorni in cui ho sperimentato, attraverso il tuo volto e quello delle persone che ho incontrato, la fatica del vivere quotidiano, del guardare oltre la montagna, ferma davanti ai miei occhi, e scoprire l’abbraccio consolante che vi si nasconde. Come spesso ripeto a me stesso, “oltre i limiti, ci sono gli orizzonti”.
Nulla accade per caso, Emanuela. E andare oltre significa non restare fermi davanti ai propri limiti, ai dubbi, allo sconforto, al dolore, ma provare a guardare gli orizzonti di bene presenti nella nostra vita, a non perdere la speranza, a cercare e trovare il senso di ciò che accade anche quando questo senso sembra non esserci.
Mi piacerebbe ringraziare Giovanni, il Battista, per la sua fede che patisce delusioni, ma non si arrende; che conosce il dubbio ma genera cercatori di verità; che si fa ascolto e apre il presente alla novità di Dio. E Dio compie le sue promesse, non le nostre attese. È il vangelo di questa domenica.
“Sei tu o no quello che il mondo attende? Il profeta dubita e Gesù continua a fidarsi. E questo mi conforta: anche se io dubito, la fiducia di Dio in me resta intatta. È Bellissimo!
Perché è umano, di fronte a tanto male, dubitare; di fronte al fatto che con Gesù cambia tutto: c’è un Dio che viene a prendersi cura dei piccoli, a guarire la vita malata, fragile, stanca: tutti hanno una seconda opportunità, i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i sordi odono, ai poveri è annunciato il Vangelo.
Gesù elenca sei opere non per annunciare un fiorire di miracoli all’angolo di ogni strada, ma che Dio entra nelle ferite del mondo, per trasformarlo. Gesù non ha mai promesso di risolvere i problemi della storia con i miracoli. Ha promesso qualcosa di più forte ancora: il miracolo del seme, il lavoro oscuro ma inarrestabile del seme che fiorirà.
Le opere d’amore che Gesù elenca non hanno cambiato il mondo, perché per un lebbroso guarito milioni d’altri si sono ammalati; sono tanti i ciechi che non riacquistano la vista, i lazzari alle porte; sono molti di più i sofferenti non miracolati. Ma quelle opere sono l’utopia di un tutt’altro modo di essere uomini, ed è sempre l’utopia che fa la storia. Sono le mani di Dio impigliate nel folto della vita.
“Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!”
Il senso non possiamo scoprirlo se restiamo chiusi dentro noi stessi, nel nostro guscio, senza sentire e cogliere la presenza dell’Altro che si dona alla nostra vita anche attraverso l’altro che ci è accanto.
Vedi, Emanuela, io credo che vivere sia l’infinita pazienza di ricominciare. La nostra vita non è raccogliere o arrivare ma partire ogni giorno, seminare ad ogni stagione. Vivere è abbandonarsi alla relazione che ci fa esistere: nasciamo da una relazione, rinasciamo ad ogni relazione. Autentica, sincera, profonda. E’ a partire da questa relazione che possiamo trovare dentro di noi la forza per non fermarci davanti alle difficoltà, per non arrenderci, per non rimanere a terra e per rialzarci.
Quella forza l’ho vista nel volto della mamma di Martina che non si rassegna davanti alle difficoltà che sta incontrando e negli occhi della figlia, gravemente ammalata, trova il coraggio di lottare per la sua dignità, perché la vita ha valore, dignità e senso, sempre!
Quella forza è nell’amore con cui la mamma e la sorella di Nino, da tanti anni crocifisso in un letto, si prendono cura di lui, senza fargli mancare mai il calore dell’abbraccio che lo aiuta a resistere e lottare.
Quella forza è nel silenzio, intriso di lacrime, che ha gridato, senza dire parole, quando mi sono trovato davanti al corpicino senza vita del piccolo Nicola. Davanti a quel corpo, ho fatto i conti con i miei limiti, sono caduto in ginocchio ed ho pianto. Si, ho pianto e tanto, senza provare vergogna.
In quel momento, Emanuela, ho sfidato Dio. Ma a che serve sfidare Dio? Forse, proprio quella sfida è stata la mia preghiera. Perché era il cuore a gridare. Lì ho toccato ancora di più la mia fragilità, la mia inadeguatezza, la mia umanità. La stessa fragilità e umanità che ho incrociato negli occhi di Anna, che ha perso il figlio qualche giorno fa in un incidente stradale. Nella sua disperazione mi ha gridato di riportare in vita suo figlio. Ma chi sono io per poterlo fare? No, non posso, non so farlo, non ne sono capace. Emanuela cara, la fede ti da la certezza, non la sicurezza. Cerco di credere, voglio credere, sento che senza fede non potrei vivere, ma basta tutto questo per dire: io credo?
Non si può negare la nostra fragilità né tantomeno la nostra solitudine, dimostrandoci come altri vorrebbero che noi fossimo ma, al contrario, trovare il coraggio di abbracciare quell’unica solitudine che ci permette di essere sempre noi stessi fino in fondo. Quella solitudine in cui ci costruiamo come persone capaci di amore.
È proprio la forza dell’amore che non annienta i nostri dubbi, ma ci aiuta a viverli da dentro, lasciandoci liberi di essere così come siamo. Liberi dal dover fare, dal dover sembrare, dal dover dimostrare, liberi dai bisogni che ci siamo costruiti o da quelli che ci hanno imposto. Liberi di abbandonarci ad un altro, all’Altro, ad una madre, ad un padre, ad un figlio, ad un amore, ad una comunità che, in semplicità, si prende cura di noi, dei nostri bisogni autentici, quelli che ci rendono umani: calore, protezione, attenzione, amore. Liberi come i gigli del campo, come un neonato in una mangiatoia. Indifesi come un neonato, indifesi ma non deboli. E forse verrà un giorno in cui saremo tutti liberi e vulnerabili, senza più la paura di essere aggrediti o usati dagli altri.
È in questo restare umani il senso del Tempo di Avvento che stiamo vivendo, in quella Umanità essenziale che Dio ha scelto. Rinunciando all’onnipotenza, all’assoluto, all’infinito, ha scelto la nudità, ha scelto l’umano, l’Umanità. Solo per amore. Ha scelto la fragilità!
Dio non cerca in me il giusto che non so se riuscirò mai ad essere. Cerca quella debolezza che è in me radicale, originaria, fatale. Vuole appropriarsi della mia debolezza profonda, quella che è a monte di tutti i miei sbagli. E lì vuole incarnarsi come lievito, come sole, come fuoco, come spirito dentro la creta, come pace nella tempesta. Lì, in quel centro, lì dove risiede il sogno, nell’oscurità dell’inconscio, in quella intimità che non si comunica a nessuno, né all’amico, né allo sposo e neppure a sé stessi, all’origine dei sogni, dell’amore, lì vedi un volto che non è il tuo volto. L’assoluto prende carne in te. Dio scopre sé stesso in te. Dio non è lontano da te, è la tua massima profondità.
Allora, prepararsi al Natale è riscoprirsi persona di frontiera, persona attraversata, abitata, sollevata, terra di approdo e molo di partenza e ali che sollevano, e compassione e tenerezza cha sanno prendersi cura, e parola che viene da altrove. Prendersi cura della vita, per guarire la vita. O almeno, per prenderci cura di greggi e di messi, di dolori e di ali, per custodire la vita con la nostra vita, per custodire l’amore con il nostro amore.
Vorrei custodire l’amore.
Vorrei proteggerlo dalle sofferenze e dalle rughe che segna ogni conflitto.
E’ come volessi vivere di soli inizi per mantenere intatta quella sensazione che si prova alla nascita di un legame di coppia, alla nascita di un figlio.
Niccolò Fabi mi stana quando canta:
“Ah si vivesse solo di inizi
di eccitazioni da prima volta
quando tutto ti sorprende
e nulla ti appartiene ancora”.
Per appartenere all’altro, nel bene, bisogna soffrire.
Gesù ci suggerisce che la vita non è fatta solo di inizi ma anche di piccole morti, giorno dopo giorno. Di crocifissioni che farebbero tanto sentire il desiderio ogni volta di nuovi inizi, della scorciatoia dell’abbandono. Posso essere in relazione profonda con gli altri, se riesco a farmi carico della sfida quotidiana dello stare insieme, fatto di apprezzamento e di accoglienza, di sostegno e di richiamo.
Perché, continua Fabi:
“Nel mezzo c’è tutto il resto
e tutto il resto è giorno dopo giorno
e giorno dopo giorno
è silenziosamente costruire
e costruire è sapere e potere.”
E costruisci, e sai, e puoi, solo imparando ad attraversare i dubbi che ti porti dentro e da lì ripartire.
Cerreto Sannita, 8 dicembre 2016
+ don Mimmo, tuo Vescovo