Vivere il tempo è bere alla sorgente pura della Vita.
Vivere il tempo è vederlo scorrere sul volto delle proprie madri, dei bambini, degli anziani, dei giovani;
è rincorrerlo nei ricordi e dimenticarlo negli affanni; è scoprire il nostro esistere attraverso le imperfezioni, le incompletezze, le debolezze, facendosene carico, non raggirandole; è svegliarsi in un mattino di pioggia o di sole e svelarci al nostro mondo.
Esso ci regala il sogno di accorgerci, in quel medesimo mattino, dello svelarsi dell’altro, che aspettava da sempre lo slancio della tua fiducia, come una madre attende nel giorno della sua festa l’abbraccio libero e spontaneo del proprio bimbo che le corre incontro. E tutto questo è bellissimo!
Ma in questo tempo, cristallizzato in trepidanti respiri a metà fiato per l’attesa della fine della pandemia, tutto esplode in grida di paura e incredulità, assumendo una dimensione ed una drammaticità mai conosciute prima. Un virus ci ricorda che non siamo solo corpi e che a lungo, distrattamente, abbiamo isolato e atrofizzato le nostre anime nella quarantena di un individualismo che aveva la forma di una lussuosa reggia.
Fermiamoci adesso! Ascoltiamoci dentro! Troviamo il coraggio di sognare questo tempo per ritrovare o riscoprire la nostra umanità, bagnata nell’acqua della fratellanza.
Fermiamoci adesso! Ascoltiamoci dentro! Troviamo il coraggio di essere l’un per l’altro caldo rifugio invernale e fresco riparo estivo, dove ci si possa spogliare dagli stracci di egoismi e malumori, da paure ed indecisioni, per indossare i vestiti puliti della semplicità e da essa farci sorprendere e guidare.
Non sappiamo come e per mezzo di cosa, ma la grazia di Dio, come autentica sferzata di primavera, prorompe nelle case che aprono le porte all’arrendevole sensibilità e alla fiducia, e con la stessa intensità arriva la Sua benedizione.
E ricordo mio nonno. Un contadino, uomo forte, con il viso segnato dal sole, che lavorava la terra con tutto l’amore di cui era capace. Egli, in tutta la sua intima essenza, quando mi conduceva per mano in campagna, che per me era un momento solenne, mi ripeteva: “Mimmo, coltivare la terra è sudore e sacrificio, ma procura tanta prosperità al cuore… quando vedi crescere una pianta e, ancor di più, quando i suoi frutti li consumi con la tua famiglia o li condividi con le famiglie che ne hanno bisogno, e dobbiamo ringraziare Dio” e si chinava e baciava la terra “perché senza il Suo aiuto, il solo lavoro delle braccia sarebbe vanificato”. E ripeteva: “È proprio una festa!”
Ricordo ancora quando mi insegnò a schiudere il riccio della castagna dal quale avevo paura di essere punto. Nonno Vincenzo, con la pazienza e l’accuratezza che lo caratterizzavano, facendolo essere un uomo di pace, mi disse: “Non aver paura, prendi in mano il riccio senza stringerlo, osservalo, scoprirai un nodino, schiaccialo e scava con il dito, vai fino in fondo con cura. E così troverai la buona castagna e potrai assaporarla.”
Quando la castagna scivolò tra le mie piccole mani, ricordo che avvertii un senso di felicità, di scoperta, di meraviglia e al contempo mi sentii fiero di me stesso e molto orgoglioso del mio caro nonno. Sentimenti e sensazioni, maestri e compagni del mio viaggio di vita e che mi inducono a pensare che tutti noi possiamo allontanare gli aculei della paura verso l’altro, dell’odio, dell’indifferenza, delle convenzionalità, per andare fino in fondo a noi stessi e accorgerci del frutto buono che in esso vive, per assaporarlo e condividerlo in un elevato gesto d’amore che si trasforma in atto eucaristico verso Dio.
E mio nonno vive in me, testimone del tempo di pace
del tempo donato
del tempo senza pretese
del tempo che allieta
del tempo che consola
del tempo che non rimprovera
del tempo paziente
del tempo dell’amore gratuito
del tempo che insegna
del tempo del credere
del tempo ascoltato in silenzio
del tempo che sogna la vita.
Ed io sogno che ogni persona sperimenti il tempo per sé come lo stiamo vivendo ora, perché senza un tempo lento, semplice e dilatato nessuna persona al mondo può scoprirsi, riposarsi e ricaricarsi.
Sogno che i baci e gli abbracci non vengano regalati a chiunque; sono intimi e profondi da donare con cura e attenzione per non disperderne il valore.
Sogno che le nostre case diventino nidi e non luoghi di passaggio e che siano il centro delle nostre giornate, che siano curate, vissute e amate come luoghi sacri.
Fuori è primavera e ci fa un po’ male vedere questa natura che esplode rigogliosa, mentre noi siamo chiusi in casa. Forse, una delle cose che ci insegna questo momento è che non possiamo più permetterci di essere banali.
E ce ne dà testimonianza e grande insegnamento la vicenda di una donna africana, notizia riportata dal TG, che vive in un territorio fortemente segnato dalla fame e peraltro dove il virus non sta facendo sconti. La giovane madre, per non deludere i propri bambini che come tanti uccellini le tendevano la bocca aperta, ha preso dalla terra delle pietre e le ha riposte in un pentolone di ferro poggiato su un fuoco di fortuna. Le ha coperte d’acqua e le ha fatte bollire…bollire… e ribollire finché i bambini, davanti ai suoi occhi, si sono addormentati. Mentre l’acqua svaniva come quel triste momento, il vapore si disperdeva nell’aria avvolgendo le creaturine nell’oblio. Questa donna aveva trovato il modo che avrebbe dato ai suoi piccolini l’illusione che stava preparando loro una buona pietanza; che si stava prendendo cura dei suoi figli che, a breve, avrebbero chiuso quelle bocche che per troppo tempo avevano mendicato. La loro mamma era lì, disposta a tutto pur di non assistere alla dilaniante sofferenza dei propri figli.
Ma l’illusione era dono! Era la grazia di Dio che operava attraverso la disperazione della madre e i bambini hanno avvertito in quell’etere fumoso la Sua carezza e miracolosamente si sono addormentati.
L’impensabile, l’inimmaginabile era ed è la porta dell’ingiustizia più profonda.
Ma è necessario oltrepassarla per riscattare quella donna con i suoi bambini, restituendole la dignità di madre, come a tutte le madri di questa terra costrette a vivere simili atroci sofferenze.
Se la Madonna potesse parlarci, ci direbbe: “Il mio cuore è stato trafitto per l’ingiustizia patita da Gesù, mio figlio. Risollevate queste madri sofferenti, rincuoratele, aiutatele, non le abbandonate. Ognuno di voi può fare anche una piccola cosa ma, se uniti, quei piccoli gesti daranno vita ad una grande opera di Dio. I figli su questa terra sono tutti benedetti, senza distinzione o discriminazione”.
Insieme, uniti intimamente, possiamo gridare di non essere disposti a vedere simili atrocità e veder morire per fame di cibo, di senso di giustizia, di lavoro, di riscatto, di discreto riguardo, di accoglienza, di protezione… Noi possiamo sostituire una ad una le pietre di quel crogiuolo con alimenti gustosi, odorosi del buono che c’è in noi, perché noi siamo terra e possiamo diventare cielo, e sussurrare a quella grande madre africana, che è la madre della porta accanto: Cuoci questo cibo che non ha bisogno di acqua… ce n’è in abbondanza per te, i tuoi figli e per tutti i figli e le madri del villaggio e per tutti gli uomini e i figli di questa terra… perché è bello risvegliare il tuo sorriso!
Per esso osiamo, creando un legame con fili d’argento, visibile luce di carità.
Carità non è una parola o un concetto che spesso lascia il tempo ad interpretazioni diverse, la carità è porgere un sorriso, dimenticare il rancore, è guardare la sofferenza dal vivo con le mani in tasca pronte a donare senza che nessuno lo sappia, è il bisogno che sgorga dall’anima di accompagnare i diversabili e le loro famiglie in percorsi non facili, comprendendone le ragioni della sofferenza. È avere cura dei propri anziani senza dimenticare che ognuno di noi in un fiat è già anziano.
La carità non si mostra, non mendica, ma si ascolta con la sinfonia delle anime. È un moto del cuore che commuove. Ognuno di noi è depositario di carità, basta accorgersene e scoprirla.
E nel sofferto di questo tempo qui e ora non c’è solo un dramma da superare, ma un’umanità da far affiorare a nuova luce. Siamo nati in un giorno e in un’ora precisi, eppure c’è il Dio della vita che ci chiama a percorsi più veri e a diventare Suoi figli attraverso il travaglio degli eventi vissuti.
Sento il bisogno di un alfabeto nuovo, segnato da tante cicatrici, che sarà una lingua sussurrata, dove il tempo lineare si trasforma nel tempo della creazione di Dio, che ci colma e ci redime.
Vivere il tempo è respirare la grazia di Dio.
† don Mimmo, vescovo