Preghiera e predicazione (Luca 18,1-8)

Ritiro del Clero presso la Chiesa “Santa Maria del Carmine” (Casa Madre delle Suore degli Angeli) - Faicchio (BN)
10-02-2022

 

Gesù racconta una parabola ai discepoli sulla necessità di pregare sempre senza stancarsi mai. È un’espressione che colpisce perché spesso associamo la stanchezza all’idea di un lavoro, di una fatica manuale, e la preghiera allora non sembrerebbe qualcosa di faticoso per cui ci si possa veramente stancare, eppure proprio queste parole di Gesù illuminano in maniera particolare la nostra preghiera e il nostro pregare. Gesù dice che la preghiera è una necessità, che non se ne può fare a meno, anzi per Gesù è la strada per mantenere viva la speranza di un mondo più giusto ed umano, perché si affermi la giustizia. Allora questa parabola è anche per noi fratelli perché dobbiamo tutti imparare veramente a pregare sempre senza stancarci, e l’esempio che Gesù pone al centro della parabola, quello della povera vedova, aiuta a capire ancora meglio il senso di questa necessità. Infatti la preghiera dei discepoli non può essere mai slegata dalla vita, dal mondo in cui vivono; deve legarsi alle situazioni che incontrano, alle domande di salvezza, di guarigione, di ascolto dei tanti che si incontrano per avere nel cuore l’ambizione, il sogno di cambiare le situazioni e gli eventi della vita. Allora la povera vedova della parabola è l’immagine di una umanità che conosciamo bene; è quella delle nostre parrocchie, dei nostri territori; un’umanità anche di deboli e poveri a cui nessuno dà retta, a cui nessuno offre giustizia: sono gli anziani chiusi nelle prigioni di solitudine, i bambini di cui poco si comprende il dramma di questo tempo, dei giovani preoccupati per il loro futuro, ma anche dei profughi bloccati alle frontiere anche loro in attesa di futuro, di tante famiglie anche esse prigioniere di un futuro incerto. C’è un giudice che dovrebbe difendere quella povera donna, ma quel giudice è proprio l’immagine dell’indifferenza del nostro tempo, un tempo che non ha timore di Dio né riguardo per alcuno. È l’immagine di un’altra umanità che anche conosciamo bene, anche questa presente nelle nostre comunità parrocchiali, che non ascolta, che è attenta solo ai propri interessi, non ha tempo né voglia di sentire i problemi degli altri, e allora cosa fa la povera vedova? Non si rassegna e con insistenza si reca da quel giudice pretendendo giustizia; non si accontenta, insiste con tenacia, non si stanca di chiedere con perseveranza finché quel giudice non si decide ad ascoltare e a fare giustizia. Allora l’insistenza è la forza della preghiera e qui i discepoli allora devono scoprire la fatica, il lavoro della preghiera che ogni giorno deve calarsi, calare il proprio cuore nelle situazioni della gente, della vita degli uomini perché queste situazioni cambino. Chi si mette in ascolto della vita, chi non rinuncia ad ascoltare le domande di tanti, diventa insistente e perseverante nella preghiera. Diceva un grande mistico ebraico: la preghiera è priva di senso se non è sovversiva, se non cerca di rovesciare le piramidi di odio, di insensibilità, di menzogna; quelle forze che continuano a distruggere la promessa, la speranza. La preghiera di quella vedova sovvertì e riuscì a cambiare quel cuore iniquo ed egoista e ottenne giustizia, e questa è anche la lotta della preghiera e questa è un’altra immagine che torna nella Bibbia: la preghiera è una lotta, la lotta tra il bene e il male, tra la giustizia e l’ingiustizia, tra la pace e la guerra. In realtà tutto questo è nel cuore di ciascuno.

E allora come è facile anche per noi lasciarci cadere nella sfiducia, nella indifferenza, lasciarsi travolgere dalle ingiustizie, dalle cose del mondo, dalle nostre ansie e dimenticare la forza preghiera, quasi dubitarne. Nella preghiera non si può mai essere indifferenti. Dice Gesù: Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno alla notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare? Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Dio fa giustizia prontamente, ma cerca fede e insistenza nella preghiera perché tutti anche noi possiamo cambiare nella preghiera il nostro cuore, il cuore degli altri. E allora, quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà la fede sulla terra? Si quando il Signore tornerà e torna ogni giorno, trova fede sulla terra quando trova amore, accoglienza e una preghiera che protegge, ama e apre al futuro.

Mi diceva un anziano: con la pandemia abbiamo perso gli abbracci. E questo è vero soprattutto per quelli che non sono mai abbracciati. L’abbraccio significa comunione, si impara ricevendolo e dandolo, superando le distanze. Il Sinodo nel quale siamo appena entrati ci chiede di arrivare con un abbraccio fatto di preghiera, preoccupazioni, ascolto anche a chi è lontano e non ha la Chiesa come orizzonte personale.

La liturgia della domenica deve essere un abbraccio, deve riscaldare il cuore, con i canti, la predicazione, con il suo servizio liturgico; un abbraccio a chi si abbraccia a noi. Grazie a Dio, a parte una parentesi, celebriamo nel mezzo della pandemia. Speriamo che passi presto. La pandemia si è però un po’ depositata nell’anima di tanti. Siamo stati segnati da un’esperienza globale di malattia. La pandemia ha mostrato che il destino è comune e che ci si salva insieme: ma questa coscienza è scarsamente diffusa. Prevale anzi al contrario la coscienza del salvarsi da soli. La pandemia ci ha infragiliti, comunicando uno spirito di ripiegamento e isolamento: ha cambiato le abitudini, ma anche un po’ lo spirito. Il contagio ha spinto a un ripiegamento su di sé, proteggendosi dall’altro che poteva contaminarci. Le relazioni si sono rarefatte. Gli incontri diminuiti. Si incontra meno gente e si è meno interrogati. Si sta più a casa. Il volto dell’altro diventa più coperto e lontano con la mascherina: non si vede il sorriso. Tutto diventa cerebrale. Si lavora da casa. Questo ha talvolta reso più tesi i rapporti con i familiari. Siamo meno abituati alla socievolezza, più fissati su noi. La pandemia ha un po’ ridotto gli orizzonti.

Insomma la pandemia ha fatto emergere una cultura che stava sotto la cenere. La cultura della solitudine, ma la solitudine e l’isolamento sono rischi per la salute fisica e psicologica. È come se il mondo fosse divenuto un po’ più di vecchi, che girano intorno a sé, hanno paura, non guardano al futuro. La perdita del Noi, sconfitto dall’io, ci ha lasciati isolati e vulnerabili. Ma non è bene essere soli! C’è uno spirito della pandemia, che è quello della solitudine, che fa ammalare l’anima.

I poveri aumentano. La realtà è dura. Del resto, in tante società, c’è stato un infragilimento, dovuto alla crisi economica indotta dalla pandemia. Sono stato a Napoli nei giorni scorsi e ho trovato vari negozi chiusi, attività dismesse, i lavori più semplici -penso a quelli che lavorano nella ristorazione, per fare un esempio- si sono ridotti. Da qui il valore dell’insistenza. Cosa fare?

Nel Vangelo Gesù parla di un uomo “che non ha radice in sé ed è incostante”, quindi cambia subito quando giunge la tribolazione (mt13,21): “Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato”. Giacomo ammonisce: “non pensi di ricever qualcosa un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (Gc1,7). La preghiera della vedova ci ha parlato di insistenza, di perseveranza.

La perseveranza nell’amore e nella preghiera sposta lentamente, ma decisamente, il mondo verso il bene. C’è una direzione, quella del ritrovarsi. Giustizia è ritrovarsi, non lasciare soli nessuno. L’insistenza e la perseveranza nella preghiera, cambia. Come dice Karl Barth, grande teologo evangelico: “Dio non agisce allo stesso modo se preghiamo o se non preghiamo. C’è influenza della preghiera sull’azione, sull’esistenza di Dio”.

Con la perseveranza e la fiducia siamo passati attraverso la pandemia; con insistenza ci siamo rivolti al Signore. La liturgia della domenica per molti e per molto tempo è stata l’unica opportunità di stare con gli altri. La liturgia della domenica ci ha salvato come popolo, anche se ridotto e infragilito.

In questo mondo, deve sorgere una nuova stagione: quella di un mondo fraterno. In questo tempo del Sinodo che ci chiede di camminare insieme, vogliamo vivere con un’idea grande e concreta: realizzare la fraternità, come legame sociale nella vita delle nostre piccole città, dei borghi, tra le persone, tra tutti; realizzare legami che contrastino lo scivolamento verso l’individualismo.

Pandemia o no, questa è un’urgenza! non mettiamo tutto questo sottoterra o sotto i nostri piedi! Sono tanti talenti da impiegare per un mondo fraterno. Questa è l’urgenza di oggi: metterci al servizio di questa visione del futuro, che ha speranza di pace e fraternità, che non si rassegna -senza lottare- allo scivolamento in un mondo pessimista e rassegnato. Bisogna ridare serenità alla nostra gente.

È un’urgenza in una società di soli: uscire dalla distanza e dalla conflittualità. Bisogna ridare felicità alla nostra società, in cui il cristianesimo si fa irrilevante e intristito. Ci vuole un “cristianesimo felice”. Un cristianesimo felice, che rende felici gli altri, consapevole che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, nell’ascoltare, nell’avvicinare, più che nell’allontanare o nel prevalere. Una Chiesa sinodale che sa vivere la vicinanza e l’ascolto può aprire una stagione del cristianesimo felice, che faccia maturare ovunque la fraternità: è una necessità.

Insomma essere fermento di un cambiamento umano e sociale, religioso e fraterno. Papa Francesco, nella Fratelli tutti, ha fatto una grande proposta che non può essere abbandonata. Lo spirito della pandemia e del salvarsi da soli non può dominare dopo la pandemia. Ci vuole il contagio di un cristianesimo felice che porti alla fraternità. Se non lo facciamo o non lo comunichiamo, chi lo farà?

Cari amici, in questo percorso che quest’anno stiamo facendo insieme sulla liturgia della domenica, oggi, anche alla luce di quanto detto finora, desidero saltare alcuni punti che poi riprenderemo, per parlare del valore della predicazione, che insieme alla Parola di Dio letta e proclamata, è il vero antidoto alla pandemia spirituale che ha fatto ammalare tanti cuori.

Non sono le nostre parole, ma la Parola di Dio e l’omelia che aiutano a sollevare lo sguardo da sé per guardare avanti con fiducia, che ci rendono insistenti e perseveranti nella preghiera e nel proporre cammini nuovi alla nostra gente. Il “cammino sinodale” ci sta chiedendo in questa prima fase di vivere un tempo di ascolto. “Ascoltare” Dio che parla è per ognuno di noi il primo passo da compiere insieme, uomini che ascoltano la parola che Dio ci offre quando siamo riuniti con le nostre comunità o quando la leggiamo e meditiamo da soli. Chiamati ad ascoltare Dio che parla, per imparare ad ascoltarlo quando parla attraverso gli altri.

L’omelia è il momento nel quale la Parola di Dio è come accompagnata nelle stanze segrete del cuore dei fedeli. L’episodio dei due discepoli di Emmaus si chiude con la loro riflessione: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32). La stessa cosa accadde a Maria dopo aver ascoltato le parole dell’angelo: «A queste parole rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto» (Lc 1,29). E nel giorno di Pentecoste, dopo la predica di Pietro, ecco cosa avvenne: «All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore nel petto e dissero a Pietro e agli altri apostoli: che cosa dobbiamo fare fratelli?» (At 2,37).

La Parola di Dio provoca sempre un «turbamento» se è accolta con il cuore. Un turbamento che scuote dall’appiattimento. Essa colpisce le corde del cuore di chi ascolta, e suscita una domanda di conversione Per questo Paolo afferma: «fides ex auditu». La fede non nasce da fenomeni spettacolari, ma dall’ascolto del Vangelo spezzato dalla predicazione. Certo è il Signore che dona la fede, ma, il momento del dono, è quando il cuore ascolta. Così scrive l’Apocalisse: “Ecco sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). I due discepoli di Emmaus «non vedevano» Gesù, ascoltavano solo la sua voce, e mentre continuava la spiegazione sentivano il loro cuore scaldarsi. Ecco perché l’omelia possiamo collocarla all’origine stessa della fede.

A noi è chiesto di prepararla con cura. L’omelia ha bisogno di una gestazione fatta di preghiera, di studio, di affetto, di familiarità con la Scrittura e di conoscenza della gente. Non può pertanto essere standard e uguale per tutti o essere la stessa degli anni precedenti. C’è uno stretto rapporto tra la Scrittura e il popolo a cui è rivolta. Chi predica deve cogliere questo rapporto. San Gregorio Magno, vescovo a Roma nel VI secolo e grande studioso delle Scritture, confessa che più volte, leggendo e rileggendo un testo biblico, non era riuscito ad afferrarne il senso, ma “messo davanti ai fratelli l’ho capito”. Tenere l’omelia è una grandissima responsabilità. Sant’Agostino, mettendosi dalla parte dell’ascoltatore, diceva: “Se non mi rendi migliore di quello che ero, perché mi parli?”. Durante la settimana si ascoltano tante parole. Nella liturgia è Dio che parla. La sua Parola è una fonte di sapienza e di umanità. C’è bisogno di questo tempo di ascolto in un mondo in cui spesso non ci si ascolta più. Nella nostra società in cui è diventato raro sedersi gli uni accanto agli altri per ascoltarsi, e in cui è difficile persino per i membri della stessa famiglia sedersi con calma per parlare, la liturgia è lo spazio in cui  ascoltare Dio con tranquillità e con calma. Con l’ascolto di Dio inizia il colloquio più importante della vita.

C’è una soglia della nostra coscienza che può essere oltrepassata solo dal Signore che ci parla attraverso la predicazione. Il giovane Samuele disse: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (1 Sam 3,11). Cari amici, non c’è omelia nella quale il Signore non ci dica qualcosa. È ovvio che questo comporta un clima, anche esterno, di silenzio e di raccoglimento. Nessuna parola deve andare perduta.

Domenica scorsa (6 febbraio) il Vangelo di Luca diceva che la folla faceva ressa attorno a Gesù per ascoltare la parola di Dio. Quella folla non cercava Gesù per avere guarigioni, ma per ascoltare la parola di Dio. Le nostre parole, dette o scritte, sono portatrici della saggezza della parola Dio o sono solo espressione del nostro io, delle nostre convinzioni e abitudini? Quale visione abbiamo della nostra esistenza e del mondo? Le nostre parole manifestano sentimenti, pensieri, percorsi diversi da quelli del mondo?

Nel libro di Neemia al cap. 8 si parla di quando il popolo “come un sol uomo” si radunò sulla piazza davanti alla porta delle Acque che conduceva al Tempio. Il Libro della Legge di Mosè, cioè la Parola di Dio, tornava tra la gente, davanti all’assemblea “degli uomini, delle donne e di quanti potevano intendere”. Una festa grande, di tutti, piena di gratitudine perché il Libro tornava alla presenza di tutto il popolo. Era passato il tempo dell’esilio e della dispersione, in cui l’assemblea non si riuniva. Fino ad allora la Parola esisteva ma non era per tutti, non veniva letta e commentata nell’assemblea. Non erano più abituati ad ascoltarla insieme, come popolo. Quel giorno fu di gratitudine e di stupore. Il popolo era finalmente riunito. La Parola fa l’unità del popolo. Dice Neemia: “Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni e a esultare con grande gioia, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate”. È il senso di una festa piena di gioia, in cui a tutti è dato da mangiare. È la vera festa che vuole il Signore: laddove la Parola è compresa, c’è gioia grande e il pane è distribuito a tutti, nessuno escluso. Questa deve essere la festa della nostra liturgia della Domenica: gioia e gratitudine per aver ricevuto e compreso la Parola di Dio non da soli, ma insieme e per aver imparato che tutti sono nostri fratelli con cui condividere il pane dell’amicizia e del dono. E che possiamo finalmente ricominciare.

† Giuseppe, vescovo