Omelia per la Festa di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori 2018.

01-08-2018

Dio è luce: una delle più belle definizioni di Dio. Ma il Vangelo oggi rilancia: anche voi siete luce. Una delle più belle definizioni dell’uomo. E non dice: voi dovete essere, sforzatevi di diventare, ma voi siete già luce. La luce non è un dovere ma il frutto naturale in chi ha respirato Dio. La Parola mi assicura che in qualche modo misterioso e grande, emozionante, noi tutti, con Dio nel cuore, siamo luce da luce.

Io non sono né luce né sale, lo so bene, per lunga esperienza. Eppure il Vangelo parla di me a me, e dice: Non fermarti alla superficie, cerca in profondità, verso la cella segreta del cuore; là, al centro di te, troverai una lucerna accesa, una manciata di sale. Per pura grazia. Non un vanto, ma una responsabilità.

Voi siete la luce, non io o tu, ma voi. Quando un io e un tu s’incontrano generando un noi, quando due sulla terra si amano, nel noi della famiglia dove ci si vuol bene, nella comunità accogliente, nella comunione presbiterale, nel gruppo solidale è conservato senso e sale del vivere.

Come mettere la lampada sul candelabro? Ce lo dice la parola di Dio: Spezza il tuo pane, introduci in casa lo straniero, vesti chi è nudo, non distogliere gli occhi dalla tua gente… Allora la tua luce sorgerà come l’aurora (Isaia 58,10). Tutto un incalzare di azioni: non restare curvo sulle tue storie e sulle tue sconfitte, ma occupati della città e della tua gente, illumina altri e ti illuminerai, guarisci altri e guarirà la tua vita.

Il sale se resta chiuso in sé non serve a niente: deve sciogliersi nel cibo, deve donarsi. Il sale dà sapore: è avere il sapore di Cristo. E accade quando Cristo, come sale, è disciolto dentro di me; quando, come pane, penetra in tutte le fibre della vita e diventa mia parola, mio gesto, mio cuore.

“Voi siete il sale della terra”. Voi e la terra: c’è un rapporto? Fra voi e la terra? “Voi siete la luce del mondo”. Voi e il mondo: c’è un rapporto? Fra voi e il mondo? Ecco, sembra di leggere, sotto queste immagini evangeliche, un problema spesso dibattuto e dibattuto anche oggi: quello del rapporto fra i cristiani e il mondo, il rapporto fede‐storia.

E sembra di cogliere sotto l’immagine evangelica subito un no, un no alla fuga: non in fuga dal mondo, dalla terra. Non a costruirsi una terra a lato, un mondo a lato, una comunità a lato: “Luce del mondo, sale della terra”. È un no alla separazione. Sembra di dire cose ovvie, quando si dice che i cristiani non devono fuggire nel deserto, separarsi. “Ma c’è un modo più sottile” ‐ scrive un commentatore ‐ “di separarsi dal mondo, ed è quello di vederlo in termini tutti negativi, di accentuare gli aspetti antievangelici, di condannarlo in blocco, per avere magari la gioia di sentirsi diversi, che tradotto vuol dire più bravi”.

Allora non un mondo a parte, non una città a parte, non una comunità a parte e non l’arroccamento. Nel mondo. Ma ‐ attenzione, dice il Vangelo ‐ nel mondo, ma non insipidi, non senza sapore, non senza il sapore della vita, o se volete, non senza ciò che dà sapore alla vita, che è la Sapienza di Dio, che è Cristo, la Sapienza di Dio.

Nel mondo, ma non spenti: siete la luce del mondo, lo siete se siete di Cristo. Nel mondo senza nascondervi, “la lucerna non sotto il moggio, ma sopra il lucerniere”. Sembra di capire allora che ai cristiani è chiesta una certa visibilità, non un adeguamento servile al mondo, ma un essere alternativi ai falsi ideali del mondo. E si è alternativi non quando si grida, non quando si parla e si parla, ma quando si vivono nel quotidiano le beatitudini del monte.

È molto significativo che Matteo, a differenza degli altri evangelisti, collochi queste parole di Gesù subito dopo le beatitudini. È così che si diventa sale della terra e luce del mondo, è così che si diventa alternativi, vivendo le beatitudini, vivendo il Vangelo; alternativi si diventa non perché disturbiamo, ma perché viviamo le beatitudini, alternativi si diventa non con la rozzezza, ma con il rispetto.

Questo siamo chiamati a “mostrare”. Il verbo mostrare dice visibilità ma dice anche le opere. Non si mostrano le parole! E così sfuggiamo a un duplice fraintendimento sulla visibilità. Il primo è che visibilità evangelica significhi farci vedere. La visibilità evangelica significa far vedere e glorificare il Padre che è nei cieli. Non farci vedere, ma far vedere.

E il secondo fraintendimento è che visibilità significhi fare dichiarazioni, o persino far rumore. La luce non fa rumore e non violenta le cose, le fa vivere. A che cosa servirebbero le nostre dichiarazioni, anche solenni, se non fossimo gente che ogni giorno accarezza la vita, gente nei cui occhi c’è un rispetto tenero per ogni vita?

Sant’Alfonso, che fu maestro di sapienza al suo tempo, con l’esempio della vita e con l’insegnamento, continua a illuminare, come luce riflessa di Cristo, luce delle genti, il cammino del popolo di Dio. Il nostro cammino.

A contatto con la gente incontrata in confessionale, specialmente nel corso della predicazione missionaria, egli gradualmente e non senza fatica sottopose a revisione la sua mentalità, raggiungendo progressivamente il giusto equilibrio tra la severità e la libertà. A proposito del rigorismo spesso criticato nel sacramento della Penitenza, che egli chiamava “ministero di grazia e di perdono”, soleva ripetere: “Siccome la lassezza, ascoltandosi le confessioni, ruina le anime, così loro è di gran danno la rigidezza. Io riprovo certi rigori, non secondo la scienza, che sono in distruzione e non in edificazione. Coi peccatori ci vuole carità, e dolcezza: questo fu il carattere di Gesù Cristo. E noi, se vogliamo portare anime a Dio e salvarle, Gesù Cristo e non Giansenio dobbiamo imitare …” (A. M. Tannola, Della vita ed Istituto del venerabile servo di Dio Alfonso Maria Liguori, III, Napoli 1800, p. 88; cf. Ivi, pp. 151,191-192).

Il prete non può fare a meno del confessionale, il «luogo santo» in cui la misericordia di Dio si incontra con la fragilità umana. Siamo chiamati a riscoprire questo aspetto del ministero e a viverlo con piena disponibilità. «Un prete che non è misericordioso fa tanto male nel confessionale» ha ammonito di recente il Papa.

I credenti non smettono mai di essere discepoli in cammino e, perciò, «il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato». Questo significa tornare a imparare dal cuore di Cristo, volto della misericordia del Padre. Non siamo i rigidi “controllori della grazia divina” ma gli strumenti dell’amore di Dio. La misericordia di Dio eccede i criteri del cuore umano e questa deve essere la scuola permanente del ministero sacerdotale.

Il sacerdote, per il dono ricevuto e non certo per i suoi meriti, è un ministro della misericordia divina. Egli la manifesta al mondo anzitutto vivendo, nella propria carne, la bellezza e insieme il “dramma” di questo paradosso: è un peccatore chiamato a dispensare la misericordia di Dio agli altri. Dunque, per prima cosa, il prete deve vivere nella propria esperienza personale la grazia del perdono, altrimenti difficilmente riuscirà a comunicare il desiderio di Dio di rialzare la nostra vita dal fango del peccato.

Vi prego: è necessario innamorarci nuovamente del ministero della riconciliazione, dedicando tempo, spazio e cuore a coloro che desiderano ritornare a Dio. Non sarà mai sprecato il tempo che un sacerdote passa nel confessionale, mettendosi a disposizione per l’ascolto.

Un prete che confessa, anche senza saperlo, rigenera l’ambiente in cui le persone vivono perché, attraverso la grazia sacramentale, le restituisce a un coraggio nuovo, a una disponibilità più generosa verso il bene, a un rinnovato desiderio di carità verso i fratelli. Forse, spesso, si sottovaluta la valenza sociale e pubblica di questo Sacramento e gli effetti reali e concreti che può avere per l’ecologia umana della comunità.

“Dio non nega ad alcuno la grazia della preghiera, con ogni concupiscenza e ogni tentazione. E dico, e replico e replicherò sempre sino a che avrò vita che tutta la nostra salute sta nel pregare”. Da qui il famoso assioma: “Chi prega si salva, chi non prega si danna” (S. Alfonso M. de’ Liguori, Del gran mezzo della preghiera e opuscoli affini, Roma 1962, p. 171).

È questa la struttura della spiritualità alfonsiana: la preghiera e la grazia. Il modo di conversare continuamente e alla familiare con Dio, e soprattutto, la Pratica di amare Gesù Cristo.

La sua spiritualità è una spiritualità di popolo. Tutti sono chiamati alla santità, ognuno nel proprio stato. La santità e la perfezione consistono essenzialmente nell’amore di Dio, che trova il suo culmine e la sua perfezione nell’uniformità alla volontà di Dio: non di un Dio astratto, ma di un Dio padre degli uomini: il Dio della “salvezza”, che si manifesta in Gesù Cristo.

Sant’Alfonso fu molto amico del popolo, del popolo minuto, del popolo dei quartieri poveri della capitale del Regno di Napoli, del popolo degli umili, degli artigiani e, soprattutto, della gente della campagna. Questo senso del popolo caratterizza tutta la vita del Santo, come missionario, come fondatore, come vescovo, come scrittore. Per il popolo egli ripenserà la predicazione, la catechesi, l’insegnamento della morale e della stessa vita spirituale.

Quale missionario, andò in cerca delle “anime più abbandonate delle campagne e dei paesetti rurali”, rivolgendosi al popolo con i mezzi pastorali più idonei ed efficaci. Rinnovò la predicazione nei metodi e nei contenuti, collegandola con un’arte oratoria semplice e immediata, perché tutti potessero capire.

Quale fondatore, volle un gruppo che, sul suo esempio, facesse la scelta radicale in favore dei più abbandonati e si installasse stabilmente vicino a loro. Quale vescovo, teneva la sua casa aperta a tutti, ma i clienti più ambiti erano gli umili e i semplici. Per il suo popolo promosse anche iniziative sociali ed economiche. E non è questo, pur con tutti i nostri limiti, paure, fragilità, il senso del cammino che la nostra Chiesa sta cercando di compiere?

E non è questo il senso della Chiesa in uscita?  Si “esce”, ci si mette in “esodo”, quasi nomadi itineranti con Gesù in cammino sulle strade del mondo, per donare a tutti, non una semplice dottrina o un insieme di norme etiche (pure necessarie), ma molto di più, la “gioia liberante del Vangelo” che ci ha cambiati dentro e ci cambia continuamente.

Si “esce” perché sospinti da Dio e dal suo Spirito, ed inviati da Cristo.

L’iniziativa di “uscire” non è nostra ma di Dio, perché siamo chiamati ad uscire e a camminare secondo la sua Parola, i suoi criteri, i suoi dinamismi, e non i nostri.

Nell’orizzonte della misericordia. È questo l’orizzonte di senso che qualifica lo “stile” della Chiesa in missione. Sta qui la bellezza della santità del nostro Patrono. Nelle sue scelte rileggo l’esortazione di papa Francesco, quando nella Evangelii Gaudium, invita la Chiesa tutta, pastori e fedeli, in quanto comunità evangelizzatrice, con parresia a scegliere di:

  • prendere l’iniziativa, andare incontro, cercare i lontani, per offrire misericordia
  • coinvolgersi, entrare in simpatia e in empatia, abbassarsi, inginocchiarsi, accorciare le distanze;
  • accompagnare con pazienza tutte le fasi e le situazioni della vita dell’umanità;
  • dare frutti di vita nuova e prendersi cura, affinché la Chiesa, offrendo sé stessa, “mettendosi in gioco”, manifesti, attraverso la sua vita, tutta l’energia liberatrice e rinnovatrice della Parola;

Ed è anche il senso della prossimità: La prossimità è essenziale all’evangelizzazione e quindi alla carità. Occorre decidere di farsi prossimo, di incontrare l’altro, superando precomprensioni, pregiudizi, fatiche e diffidenze. L’altro è sempre un fratello, un fratello per il quale Cristo è morto (1Cor 8,11).

La conversione pastorale che ci attende non riguarda tanto l’oggetto dell’evangelizzazione – che non cambia ed è, secondo le parole di Gesù: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo (Mc 1,15; cf. Mt 4,12) – ma l’itinerario da percorrere per rendersi prossimi e lo stile di questo cammino: dal cuore della vita ecclesiale che è l’eucaristia, dobbiamo andare incontro all’uomo, scoprire il suo bisogno e saperlo leggere come carne di Cristo. Ed è il grande insegnamento di Sant’Alfonso.

Cristo al centro ed annunciare il Vangelo a tutti, in tutte le situazioni, senza repulsioni e senza paure.

Oggi dobbiamo essere consapevoli delle difficoltà che abbiamo nei confronti della prossimità, del farci prossimi e del renderci vicini gli uni agli altri. Noi oggi, come Chiesa, facciamo la carità più che in altre epoche, ne possiamo essere certi; ma siamo sicuri di vivere la carità evangelica che non è solo donare e condividere i beni, ma è innanzitutto prossimità per incontrare, per poter ascoltare, per poter accendere una relazione nella quale poi operare con responsabilità e amore, secondo i bisogni di chi incontriamo?

Ecco dove il Vangelo deve giungere, perché lì nessuno lo fa brillare, lo evoca, vi allude: le periferie esistenziali. Ma attenzione: chi di noi non conosce periferie esistenziali, chi di noi non ha transitato in esse almeno una volta nella vita (nella malattia, nella separazione, nella solitudine) o prima o poi non vi transiterà? La sofferenza causata dalla morte, dalla malattia, dalla povertà, dal peccato non può essere rimossa; non per fatalità, ma perché noi uomini non siamo capaci di salvarci, e per questo Gesù ha detto: I poveri li avete sempre con voi. La povertà è cangiante, e oggi la riscopriamo attraverso la crisi, ma sarà sempre presente sulla terra.

Allora dobbiamo vivere la prossimità anche con questa consapevolezza: che noi non abitiamo a Gerusalemme mentre gli altri abitano a Sodoma e Gomorra; che noi non siamo quelli che vanno nelle periferie esistenziali solo per fare la carità, ma perché le conosciamo in prima persona. Tutti, infatti, siamo sofferenti per il peccato e la fragilità umana, tutti siamo in attesa che il Signore ci visiti nella nostra periferia esistenziale.

La popolarità del Santo deve il suo fascino alla brevità, alla chiarezza, alla semplicità, all’ottimismo, all’affabilità che arriva fino alla tenerezza. Alla radice di questo suo senso del popolo sta l’ansia della salvezza: salvarsi e salvare. Una salvezza che va fino alla perfezione, alla santità. Riconciliamoci con la tenerezza.

Il Santo ebbe come pochi il “sensus Ecclesiae”: un criterio che lo accompagnò nella ricerca teologica e nella prassi pastorale fino a diventare egli stesso in qualche modo la voce della Chiesa.

Chiediamoci com’è il segno di appartenenza che noi abbiamo alla Chiesa: il sentire con la Chiesa, sentire nella Chiesa. Il cristiano non è un battezzato che riceve il battesimo e poi va avanti per la sua strada. Non è così, perché «il primo frutto del battesimo è farti appartenere alla Chiesa, al popolo di Dio». Non si capisce un cristiano senza Chiesa. Per questo il grande Paolo VI diceva “che è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. È una dicotomia assurda». Sentire e pensare e volere dentro la Chiesa. Con umiltà, nella fedeltà, attraverso il servizio.

«Ancora Paolo VI ci ricorda che noi riceviamo il messaggio del Vangelo come un dono. E dobbiamo trasmetterlo come un dono. Ma non come una cosa nostra. È un dono ricevuto che diamo». E «in questa trasmissione» bisogna «essere fedeli, perché noi abbiamo ricevuto e dobbiamo dare un Vangelo che non è nostro, che è di Gesù. E non dobbiamo diventare padroni del Vangelo, padroni della dottrina ricevuta per utilizzarla a nostro piacere».

Amare la Chiesa, diventando noi per primi testimoni credibili. “Lungo la strada è cominciata la Chiesa; lungo le strade del mondo la Chiesa continua.  Non occorre per entrarvi battere alla porta, camminate e la troverete, camminate e vi sarà accanto, camminate e sarete nella Chiesa!» (Primo Mazzolari).

L’essenza di «un servizio davanti a Dio è preghiera per la Chiesa».

Sant’Alfonso interceda per noi, ci aiuti a perseguire questa strada per vivere la nostra appartenenza alla Chiesa e il nostro sentire con la Chiesa.

E ci aiuti a stare non solo accanto, ma in mezzo al popolo; a cercare le “anime più abbandonate”, in una fedeltà radicale. Fedeltà a Cristo e al suo Vangelo, fedeltà alla Chiesa e alla sua missione nel mondo, fedeltà all’uomo e al nostro tempo.