“COME LE NOSTRE FERITE, COME LE SUE PIAGHE” – lettera del vescovo Mimmo per Pasqua 2017

PASQUA2017
16-04-2017

Quando perdonare diventa un peso insopportabile, è difficile aprire le porte del cuore. E fu così per Rita. Essa era di una tal bellezza che non stanca mai. Sul suo fresco viso traspariva un’anima pulita, semplice e, più di tutto, ingenua. Nei pomeriggi si faceva accarezzare dal vento della primavera, stando immobile, in piedi, con il volto contro il sole, mentre l’azzurro del cielo si rifletteva nei suoi occhi. Era felice, perché i giardini di fronte casa della sua amata nonna, lodavano il Signore, tanto erano in festa e accendevano luce anche nel buio dei cuori. E Rita si abbandonava, già dalla tenera età, a quell’incanto, a quegli istanti che la facevano stare in quell’etere odoroso delle sue emozioni.

Più tardi, col passare del tempo, ormai adulta, sposata, ahimè infelice, tornava lì, in quel luogo ormai deserto di affetti, per riabbracciare le gioie di primavere lontane, per perdersi, ritrovarsi, o per dimenticare la sua vita attuale fatta di mancanza di amore. Suo padre era volato in cielo troppo in fretta, proprio come un tulipano di campo. I suoi figli le davano preoccupazioni oltre al gran da fare e poi c’era il suo pesante passato: una madre naturale che l’aveva data in adozione da bambina ad una nuova madre e ad un nuovo padre e Rita non ne aveva mai compreso il perché. Si sentiva ripetere che lo avevano fatto per il suo bene, per offrirle un futuro migliore, dato che la famiglia che l’aveva accolta era benestante, ma per Rita, più passava il tempo, più quella motivazione illogica vacillava. Intanto essa soffriva e nessuno se ne accorgeva.

La nuova madre non le voleva bene, ma di questo si accorse solo molto più tardi, quando quella donna un giorno le disse che non la sopportava e che aveva acconsentito a prenderla con sé spinta dal marito che voleva ad ogni costo un figlio, figlio che lei non avrebbe mai potuto dargli. Pensate che beffa del destino per Rita…dolore su dolore…e quando e come avrebbe potuto riprendersi? Ma Rita continuava a vivere.

Ad ogni festa il cuore la spingeva verso la sua casa natia, era come se avesse voluto dimenticare tutto e ricominciare ad ogni passo, ad ogni nuovo anno; voleva respirare l’aria che le era stata negata contro la sua volontà e senza che se ne accorgesse.

La madre naturale era una donna dura, dignitosa, che, ad ogni loro incontro, si dimostrava distaccata, lontana; poneva a Rita tante domande come un interrogatorio ma non tradendo le sue emozioni, non sembrava mai turbata…era come se non volesse ricordare gli accadimenti passati e dolorosi, era come se tutto fosse scontato, dovuto, un vissuto sepolto, probabilmente, dietro ad una maschera inespressiva che aveva stampata sul viso.

In fondo Rita non voleva più spiegazioni, non chiedeva giustizia, non implorava quell’amore negatole, cercava e voleva trovare in quella madre naturale un sorriso gentile, un gesto garbato, gratuito, che si dona per il gusto di donare. Quanto la feriva quella freddezza! Quante, troppe volte, l’aveva ferita! E Rita non si era mai chiesta neanche il perché la mortificasse, provocando in lei dapprima una sofferenza sopita e poi la terribile consapevolezza di non essere amata neanche dalla sua vera mamma. Rita non si sentiva amata. Lavorava, sfaccendava, accudiva…portando nel cuore il tormento che si univa alla sfiducia in sé stessa, nella vita, nella sua misera realtà che le sfuggiva.

Fin quando diventò insofferente, non riuscendo a darsi pace, e così cominciò a ribellarsi…dentro, in fondo a sé stessa, in quel giardino segreto che è in noi dove nessuno può accedere. In quel luogo dove le sofferenze e le mortificazioni si trasformano e prendono vita in un’altra dimensione, dove si elaborano abbandoni e gli eventi che ci piegano.

E Rita era ormai in ginocchio. Per lei non arrivava nessun miracolo anzi, essa si sentiva sempre più impotente difronte alla sua stessa vita. in lei cresceva il dolore e, con esso, l’incapacità di dimenticare ragioni, emozioni, sentimenti e la privazione di una libera scelta. Il rischio che quel turbinio si trasformasse in rabbia infinita era in agguato. Ancora e ancora…i giorni trascorrevano lenti e veloci e arrivò per la madre vera il tempo della malattia. Cosa fare? Il cuore di Rita era ormai pietra verso di lei, e ciò che avrebbe voluto evitare era ormai una realtà. Non si conosce il momento preciso in cui i sentimenti cambiano e ci si trasforma in persone diverse, in uomini e donne che poco tempo prima giudicavamo, tenendole a debita distanza, perché non avremmo mai voluto essere come loro. Eppure nella vita, proprio come a teatro, si assiste a tali metamorfosi umane.

In ospedale, Rita assistette con costanza la madre, notte e giorno. Vide le piaghe sul suo corpo ormai avanti negli anni, e gliele curò, ma senza amore. La sollevava, inumidiva le sue labbra arse, la imboccava, ma senza amore. Dov’era finita la luce negli occhi della ragazza di un tempo, e la meraviglia difronte alla vita? Dov’era quell’animo pulito? Stava scontando le pene lei o la madre? E che vita era stata fino a quel letto di sofferenza, senza amore dato e neppure ricevuto, senza l’abbraccio della madre! Rita sapeva che per l’amore donato per il piacere di donare non ci si aspetta nulla in cambio; che le mortificazioni e i dolori si possono offrire al Signore e che a tutto c’è una soluzione non facendo sfuggire il tempo del rimedio, ne era ben consapevole perché glielo aveva insegnato la sua amata nonna. Ma di tutti quegli strati di cemento alzati in sé solo per difesa, ne sentiva il forte peso che si contrapponeva abissalmente alla stretta di braccia che porgeva alla madre quando ella, nel buio della pena e con gli occhi chiusi, la cercava. Bramava lei quella figlia che aveva scartata. Tanto e tanto fu lo strazio di quella figlia, di quella madre. Rita guardava le sue ferite, ma non riusciva a partecipare alla sofferenza di quella moribonda. Ed ecco la crisi profonda: “perché non riesco ad aprire il mio cuore? So che devo accettare tutto il passato con le sue enormità e le sue incongruenze, perché ormai è passato. io amo mia madre in fondo all’anima, ma non ce la faccio!” Era disperata! La madre morì.

E Rita neanche difronte a quella salma riuscì a versare una lacrima. Era in un conflitto: il suo cuore, trafitto da tante spine, sanguinava e una spina, la più dolorosa era la perdita sopraggiunta. E quando muore una madre cessa un pezzo della vita dei figli. Ne era cosciente, ma per Rita non era finito il supplizio. Odiava sé stessa per le sue reazioni difronte alla sua esistenza. Scorreva il rosario tra le mani, lo rigirava, fluiva la preghiera…ma non con cuore. Lei, che aveva sempre pregato, che avvertiva la presenza di Dio anche nella più piccola manifestazione della natura, facendosi inondare da quell’infinito, da quell’amore. E ora il deserto. Cercava dentro di sé appigli ai quali aggrapparsi con la forza della disperazione per accettare e poi perdonarsi e, finalmente, perdonare. Fu un incubo il giorno dopo e l’altro ancora.

Il terzo giorno, era la domenica di Pasqua, Rita si alzò presto e si affacciò alla finestra da dove, tutti i giorni, assaporava il giardino, il suo rifugio, che circondava la sua casa. Girava lo sguardo, respirava quell’aria buona e tratteneva negli occhi i riflessi dorati del sole. Ad ogni passo d’occhio si sentì accompagnata da quel Dio tanto infinito quanto misericordioso e caritatevole. E proprio la carità Rita la stava dimenticando, la carità dell’accoglienza del povero, del derelitto, la carità della compassione. Possibile che i dolori offuschino tali sentimenti mantenuti vivi per tanto tempo? E mentre posava lo sguardo sull’ultimo angolo di prato, avvertì una presenza, una mano che la salutava, mentre una voce le sussurrava: “perdonami…perdonami”. Scorse un volto luminoso rischiarato dalla luce del sole, in quel giorno di primavera avanzata, nel giorno di Pasqua, Rita scoppiò. Esplosero le lacrime e come un fiume in piena portarono a galla i detriti del cemento. Davanti a quella tenera figura, davanti al volto di sua madre, sospirò: “madre mia ti voglio bene”.

In quel momento, si accorse che le sue lacrime, goccia dopo goccia, stavano scavando la pietra che fino ad allora aveva avvolto il suo cuore, frantumandola in mille pezzi…e così ricominciò a sentire il battito di quel cuore di carne che non aveva mai smesso di palpitare dentro di lei…e così rotolò via la pietra e ricominciò a filtrare la luce. Rita poteva di nuovo specchiarsi nel cielo. Il sole entra anche dentro le sbarre di un carcere, senza chiedere permesso. Le sue ferite, accolte e com-prese, divennero feritoie. Il suo cuore, guarito dalle lacrime, divenne capace di amore e di guarigione.

Coraggio, allora: perché la delusione non ci sovrasti, l’angoscia non ci anneghi nel suo vortice, la confusione non zittisca il sale delle parole, la triste rassegnazione non prenda il sopravvento. La resurrezione di Gesù rimette in moto la vita, ridona ali alla nostra speranza, prigioniera del rammarico, e ci concede di dare un futuro ai nostri passi. Ed affida alle nostre mani vuote la ricchezza del suo Vangelo di vita. E apre orizzonti di resurrezione che non solo ci cambiano dentro, ma ci spingono ad andare oltre le porte che si chiudono, per renderle sempre più aperture possibili e sensibili alla sua luce. Come le nostre ferite, come le Sue piaghe.

+ don Mimmo, vostro vescovo