“Il mio Dio non è un duro…” – Omelia per la Messa Crismale del Mercoledì Santo, 12 aprile 2017

12-04-2017

Tutti gli occhi sono fissi su Gesù. Sono occhi che scrutano, che interrogano, che chiedono.
Come scintillano quegli occhi, e quanto pesano!
E oggi sono io che me li sento inchiodati addosso. Ma io non ho, come Gesù, la forza di sostenerli. Dio sa come vorrei, in questo giorno santo, anche io puntare gli occhi sul Vescovo, stare seduto dalla parte vostra, abbandonarmi, come negli anni passati, al flusso della grazia, all’onda dei richiami, all’urto della parola; lasciarmi scavare il cuore dalla bellezza di questa liturgia.

Stavolta però sono chiamato a vivere con vibrazioni diverse la solennità di questa Messa Crismale, perché, esattamente otto mesi fa, “lo Spirito Santo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.”

È la mia prima messa crismale da vescovo ed è la mia prima messa crismale con voi e per voi, oggi, qui, in questa diocesi dove il Signore mi ha pensato e voluto.

Ma è legittimo da parte mia l’accaparramento di un protagonismo che, invece, dovrebbe coinvolgere tutti e non solo me? È su di me che devono essere puntati gli occhi, o è altrove che dovremmo fissare lo sguardo?
Ho ricevuto soltanto io l’unzione dello spirito o non siamo tutti quanti noi, popolo di consacrati, a essere spinti, per questo annuncio di liberazione, ai poveri, agli oppressi, ai prigionieri?
Devo predicarlo solo io quest’anno di grazia o non spetta a tutti quanti noi proclamare, con la vita e la parola, che il Signore ci ha redenti gettando semi di speranza in ogni parte del mondo?

Fratelli miei, io questa sera voglio togliermi di mezzo. Voglio sedermi accanto a voi, immergermi nel flusso del sacerdozio profetico e regale del popolo di Dio, e semmai, in forza del mio sacerdozio ministeriale e del mio servizio episcopale, aiutarvi a puntare gli occhi su di Lui. Si, gli occhi su di Lui, Signore della nostra vita e della storia.

Oggi rinnoviamo il nostro “sì” al Signore, con l’occhio innamorato e sospinto verso un orizzonte di stupore che ci fa accogliere le meraviglie che il Signore ha operato ed opera nella vita di ciascuno di noi.
Sogno, in questo momento, il cuore di una Chiesa madre che nel suo grembo genera, fa crescere, cura e fa sbocciare vita per la vita. Non la ritualità dei gesti ma la vita, i volti, il cuore di ciascuno di noi.

Il Signore è il Dio che ha posto il suo fine al di fuori di sé stesso, il cui fine è l’uomo, la cui passione è l’uomo. Anzi, la passione di Dio è il povero, il cieco, il prigioniero, l’oppresso. E ricomincia, dalla periferia della terra, dai sotterranei della storia, da coloro che non ce la fanno, una nuova creazione.
Dio non è nella rigidità, Dio non è nel trattenersi, Dio non è nel chiudersi. È nello sbilanciarsi, che è lo sbilanciarsi dell’amore.
E si rivolge a tutte le povertà, alla fame di pane e a quella di senso, perché l’uomo preferisce morire di fame che morire di assurdo. E colma la vita non di cose, ma di persone. Da amare.

In quella sinagoga di Nazareth, come questa sera in questa cattedrale, l’umanità si rialza, riprende il filo della corrente verso la gioia, la luce, la libertà. Non per propria forza, ma per un seme di luce venuto da altrove. E Dio è il suo vento.

“Mi ha mandato per predicare un anno di benevolenza del Signore”. Un anno, cioè un secolo, mille anni, una storia intera, fatta solo di benevolenza e di tenerezza da parte di Dio. E noi a tentare di prolungarla.

Mia Chiesa, ora sai da dove ripartire: dalle periferie della storia e del mondo, dagli uomini del pane amaro, dagli affamati di tenerezza, dagli esclusi. E ricomporre in unità i frammenti di questo mondo esploso.

Isaia esprime la speranza del popolo, desideroso che il Messia venga a prendersi cura dei poveri, scoraggiati da tante cattive notizie, feriti nel cuore più che nelle membra, trattati come prigionieri dagli interessi dei potenti. E annuncia che l’Unto quando verrà, trasformerà il popolo desolato in un popolo sacerdotale, e consolandolo con la buona notizia lo renderà annunciatore di buone notizie per gli altri popoli. Medicando il cuore ferito dei fedeli e liberandoli da ogni schiavitù, li farà ministri della riconciliazione e della libertà. Trasformando i loro abiti a lutto con olio di letizia, farà sì che tutti li riconoscano come stirpe benedetta dal Signore.

E Gesù, nel passo di Luca, concentra in sé e fa sua questa speranza. Ne fa un evento del presente. Egli è la fonte costante di questa grazia sacerdotale, sempre disponibile a chi si decide a mettere nelle sue mani la propria fragilità, a chi crede che nell’oggi di Gesù si compiono la scrittura e ogni aspirazione umana. Perciò in questo giorno, come sacerdoti, vogliamo mettere nelle mani sacerdotali del Signore, come un’offerta santa, la nostra personale fragilità, la fragilità del nostro popolo, la fragilità dell’umanità intera, (le sue delusioni, le sue ferite, i suoi lutti), affinchè offerta da Lui si trasformi in Eucarestia, l’alimento che rinvigorisce la nostra speranza e rende la nostra carità attiva nella fede.

Vorrei provare a riportare la nostra mente ed il nostro cuore indietro nel tempo, fino al giorno della nostra ordinazione sacerdotale, la consacrazione della nostra vita a Dio. Lui che ci ha scelti per essere sempre e ogni giorno, ancora più suoi. Nel saperci e riconoscerci fragili, riusciamo ad andare alle radici del nostro essere scelti, benedetti, spezzati, donati, amati dal Padre e lo stesso impariamo a vedere in chi Lui ci mette accanto. E partendo dalle nostre fragilità, possiamo essere in grado di comprendere meglio anche le debolezze della Chiesa. Dalla fragilità, accolta e riconosciuta, nasce la speranza.

Proprio per il dono della mia fragilità ringrazio ogni giorno il Signore, sforzandomi di accoglierla, di custodirla e di amarla come una gemma preziosa. Perché avverto che essa è l’icona più pura del riflesso di Dio nella mia vita. Perché la mia forza è la fragilità di Dio.

“Il mio Dio non è un Dio duro, impenetrabile, insensibile, stoico, impassibile. Il mio Dio è fragile! E’ della mia razza. E io della sua. Perché io potessi assaporare la divinità, Lui amò il mio fango. L’amore ha reso fragile il mio Dio. Il mio Dio ebbe fame e sonno e si riposò. Il mio Dio fu sensibile. Il mio Dio si irritò, fu passionale e fu dolce come un bambino. Il mio Dio fu nutrito da una madre, ne sentì e bevve tutta la tenerezza femminile. Il mio Dio tremò dinnanzi alla morte. Non amò mai il dolore, non fu mai amico della malattia. Per questo curò gli infermi. Il mio Dio fu un uomo del suo tempo. Vestiva come tutti, parlava il dialetto della sua terra, lavorava con le sue mani, gridava come i profeti. Il mio Dio fu debole con i deboli e superbo con i superbi. Morì giovane perché era sincero. Lo uccisero perché lo tradiva la verità che era nei suoi occhi. Ma il mio Dio morì senza odiare. Morì scusando più che perdonando. Il mio Dio gettato nel solco, schiacciato contro terra, tradito, abbandonato, incompreso, continuò ad amare. Per questo il mio Dio vinse la morte. E’ difficile per tanti il mio Dio fragile. Il mio Dio che piange, il mio Dio che non si difende. E’ difficile il mio Dio abbandonato da Dio. Il mio Dio che deve morire per trionfare. E’ difficile questo mio Dio fragile, per chi pensa di trionfare soltanto vincendo, per chi si difende soltanto uccidendo, per chi considera peccato quello che è umano, per chi il santo è uguale allo stoico, per chi salvezza vuol dire sforzo e non regalo. E’ difficile il mio Dio fragile per quelli che continuano a sognare un Dio che non sia in mezzo agli uomini fragili e sofferenti.” (Juan Arias)

Proprio per questo mi sento nel cuore della Chiesa. E sento che è la Chiesa ad essere presente nonostante le mie debolezze e la mia fragilità di uomo. Accettare la propria debolezza è la via regale per arrivare ad amare l’altro nelle sue debolezze, e non “nonostante” queste.
Ritorniamo, allora, indietro nel tempo. Ripensiamo al turbinio di emozioni che ci ha attraversati, a come batteva il nostro cuore nell’attesa di pronunciare quel “sì” trepidante, a tratti pervaso di paura ma, al tempo stesso, deciso, pieno, avvolto da un senso di gioia profonda nel pensare che in quel momento si stava concretizzando il sogno, nostro e di Dio, per la nostra vita. Ripercorriamo i mille pensieri che affollavano la nostra mente mentre eravamo lì, stesi, sul pavimento di quella nostra Chiesa.
Ripensiamo al silenzio e alla preghiera di quel momento, perché, lo sappiamo, solo nella preghiera possiamo trovare il senso, la forza, il rifugio, il coraggio, il respiro. E’ il momento in cui ci si sente accolti, abbracciati, amati; il momento in cui, ancora una volta, Dio si dona a noi, completamente. E’ lì che rinnoviamo sempre il nostro “sì”, lasciandoci afferrare da Lui, per essere totalmente Suoi. Preghiera è riempire il tempo, perché il tempo di Dio riempie sempre la vita umana.
Ritorniamo indietro nel tempo. Ripensiamo alle mani, quelle del nostro vescovo consacrante e quelle di tutti i nostri confratelli che ci hanno benedetto ed hanno pregato per noi ed insieme a noi, per la nostra vita, per il nostro ministero. Ripensiamo alle nostre mani, impregnate di quell’olio profumato, benedetto in un Mercoledì Santo, come quello di oggi, che ci ha segnati nell’amore, ci ha messi come sigillo sul cuore di Dio.
Quelle stesse mani che un tempo sono state benedizione per noi, diventino benedizione per chi ci è accanto ogni volta che scegliamo di non tenercele pulite in tasca ma di sporcarcele, sporcandole di vita. Le mani raccontano la vita nella sua quotidianità. Mani tese, mani strette, mani che si prendono cura, mani che guariscono, mani che accolgono, mani che si fanno compagne, mani che donano perdono, mani che pregano, mani che profumano la vita, mani che sanno di mare, di terra, di pane.
Prendi queste nostre mani, Signore, fanne vita, fanne amore!

Portare il profumo dell’olio è portare la bellezza a mani vuote, perché è tutta bellezza consegnata da Dio.

Miei cari fratelli nel sacerdozio unico di Gesù nostro Signore, vi invito a chiedere tutti insieme, per ciascuno di noi e per tutta la chiesa questa grazia: comprendere la ricchezza della speranza alla quale siamo stati chiamati; essere mediatori con Gesù e in Gesù tra Dio e gli uomini. Mediatori che offrono la loro stessa fragilità insieme a quella di tutto il popolo di Dio.
L’umiltà abiti i nostri occhi, i nostri gesti, la nostra voce affinché, il nostro Dio e i nostri fratelli possano comunicare attraverso di noi. Noi, come il suo figlio prediletto, siamo chiamati ad essere cassa di risonanza della sua benedizione, altoparlanti della sua parola per raggiungere il più piccolo dei suoi figli, quel frammento che si scorge in lontananza.

Attraverso il nostro bene-dire la gente possa sentire, come lo sente da Gesù e dalla Vergine Maria, che può affidarsi a Dio, che può offrirgli i sacrifici quotidiani che tessono la sua vita, che può condividere le difficoltà che il cammino gli mette dinnanzi. Possiamo noi essere vicini alla gente che ha bisogno di lui, lo cerca, lo invoca, lo loda, lo ama. Possa la gente, attraverso di noi, dire a Dio che vuole vivere nel suo abbraccio, un abbraccio che profuma di infinito.

Vi chiedo allora di avere cura del nostro sacerdozio, avendo cura di questa offerta. Non venga mai meno la passione, non vi stancate mai di prendervi cura delle mediazioni, innamoratevi della speranza che diventa la mediatrice per eccellenza quando scorge il particolare, quando nei piccoli dettagli avviene quello scambio misterioso tra fragilità e misericordia.
Non cedete alla delusione ma, come Gesù, abbiate cura dei dettagli. Continuate a scorgere nell’orizzonte quel frammento che cambia la storia, che cambia la prospettiva, che vive della sua unicità.

Abbiate cura allora di una speranza fatta di bellezza… una bellezza che si scopre in quel dettaglio, in quel particolare, in quella “pietra scartata dai costruttori” che diventa pietra d’angolo.

E Gesù è il maestro. Ha sempre avuto una particolare preferenza per i dettagli.
E’ lui ad accorgersi della pecora smarrita, del vino che stava finendo, delle due monete offerte dalla vedova, di quell’uomo che non volle condonare il debito.
Ed è ancora Gesù che sottolinea quanto sia importante avere dell’olio di riserva nel caso in cui lo sposo tardasse ad arrivare; che si informa su quanto pane ci sia a disposizione; che prepara il fuoco e un pesce mentre all’alba aspetta i discepoli; che non guarisce le proprie piaghe.
E’ proprio perché Gesù guarda e ama il dettaglio che chiede a Pietro, nonostante le tante cose che stavano per accadere, se davvero lo volesse per amico.

Ecco, Gesù dà la priorità a tutto ciò, non guarda alla simmetricità della vita, ma alla stravolgente asimmetricità di quel dettaglio che rende vere le storie, diversi i volti, profondi gli sguardi.
Quest’attenzione di Gesù, dà sacralità alla speranza che ci raduna nell’unità.
Non manchi mai a nessuno di voi, a nessuno di noi, la speranza.
Sperate! Sperate contro ogni speranza.
Sperate per la gioia che non si esaurisca; per i gesti semplici, puri che si manifestano nel segreto dei vostri cuori.
Sperate nel perdono e che questo perdono sia contagioso.
La speranza sia la ragione, il dettaglio delle vostre vite, siate voi avvolti dalla speranza.

Quella speranza che vi dà fiducia, che vi fa credere che la vostra fiamma, seppur piccola, è necessaria allo splendore della festa; che il pane basta per tutti; che Lui è al nostro fianco sempre, sussurrando al nostro cuore di non temere.

Quella speranza che ci dà la certezza che a Dio interessa la nostra amicizia; che nessun dolore viene dimenticato anzi, Dio lo accoglie tra le mani e a uno a uno, bacia le piaghe all’arrivo in cielo, rendendole il dettaglio, il marchio di una gloria umile e riconoscente.

Impariamo a fare delle nostre fragilità la nostra speranza… la speranza dell’impossibile reso possibile. Ricordate, niente è impossibile a Dio.

Ogni prete sia presente lì dove sembra che la speranza venga messa in croce, sopraffatta dal dolore.
E’ lì, sotto quella croce che deve esserci il prete, perché ogni fratello, pur con la morte nel cuore, possa riconoscere nella morte la fioritura, perché nessuno abbia a morire dentro.
E’ lì, sotto quella croce che deve esserci il prete pronto a far notare il dettaglio di una croce che si innalza verso l’alto e che abbraccia sempre e per sempre l’umanità.

Mi rivolgo a voi fratelli nel sacerdozio: non indietreggiate di fronte all’amore per questo popolo e questa terra; lasciatevi scavare l’anima dalle lacrime della gente; siate presenti, stando in mezzo! Vicini alla gente, a tutta la gente. Siate testimoni credibili di bellezza, sentinelle che attendono l’aurora con un’unica gioia e un’unica speranza nel cuore: essere come Lui per amare in e con Lui i giorni che abitiamo.

Ed in questo momento, quello del rinnovo delle promesse sacerdotali, rinunciamo a noi stessi e, in intimità con Gesù, modello del nostro sacerdozio, confermiamo i nostri sacri impegni, rinvigoriamo il nostro si, lasciandoci guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i nostri fratelli. Dall’amore unico per il nostro Signore!

In tutto questo ci faccia da guida il Vangelo, non libro di soli valori o devozione, ma libro della nostra vita, faro delle nostre scelte, libro della storia, sorgente dei martiri di ieri e di oggi.
Viviamo il Vangelo senza sconti, sia la nostra predicazione, la nostra catechesi, la nostra radice delle scelte quotidiane. Sia tutto fortemente, unicamente, inesorabilmente ancorato e basato sul Vangelo. Sia la lente di ingrandimento sui dettagli che caratterizzano la storia e le storie.
Rinnoviamo le promesse sacerdotali aprendoci a Dio e all’uomo, all’eterno e al presente.

Lasciamoci provocare dai segni dello Spirito, ossia dai tre oli che tra poco benediremo: l’olio degli infermi, l’olio dei catecumeni, l’olio crismale. Come a dire: l’olio degli ultimi, l’olio dei lottatori e dei testimoni, l’olio dei primi.

Chiedo al Signore che unga fino all’ultima piega le nostre vesti per condurci alla Pasqua, rotolando i macigni che pesano nella nostra vita e ad aprendo i sudari della solitudine, della disperazione, dello sconforto alla speranza.

L’olio degli infermi è quello che ci conforma a Cristo sofferente ed è per questo che viene somministrato ai malati. Ma, al tempo stesso, è quello che ci ricorda che Cristo si è fatto ultimo per amore degli uomini. La nostra Chiesa sta facendo una scelta precisa a favore dei poveri?
Quest’olio, fratelli e sorelle miei, sarebbe sprecato, oggi, se non chiedessimo allo Spirito di Dio di lasciarci toccare da lui e renderci simili a Gesù Signore fattosi ultimo.

L’olio dei catecumeni è quello che ci chiama ad essere testimoni dell’amore di Dio in ogni istante della nostra vita, qui ed ora, sempre!
Chiama ad essere testimoni noi, presbiteri, attraverso la coerenza tra parola annunciata e vissuta.
Chiama ad essere testimoni voi, religiosi e religiose, profeti dell’avvenire in questo tempo presente.
Chiama ad essere testimoni voi, popolo santo di Dio, perché, abitati dalla speranza e contagiati dall’amore, possiate gustare e trasmettere la gioia del vivere nella fedeltà al Signore.

L’olio del crisma è l’olio di chi si fa custode della Parola e porta il lieto annuncio…di tutti coloro che lasciano impronte di Lui nella storia di ogni uomo e donna.

Che la nostra vita, cari sacerdoti, sia una vita povera, semplice, fatta di cose essenziali, desiderosa soltanto di conformarsi a Cristo. Una vita che non fa spazio ai compromessi, alle ambiguità, ai sotterfugi, che ha il coraggio di fare scelte forti e chiare. Una vita che, se accetta la rinuncia, anche quella di una donna, lo fa per esprimere una profezia, senza ripensamenti e senza volersi riprendere, in piccole dosi compensatorie, ciò che un tempo è stato donato con gratuità.

Permettetemi di indicarvi alcune strade preferenziali per il vostro servizio alla nostra Chiesa diocesana:
– la prima per i giovani, il nostro tesoro più grande. Mettetevi accanto a loro, camminate con loro, accoglieteli così per come sono senza mai puntargli il dito contro. Uscite dalle vostre sacrestie per incontrarli nei luoghi della loro quotidianità. Siate artigiani di futuro insieme a loro, costruttori di speranze, realizzatori di sogni.
– la seconda è per i poveri. Impariamo a farci compagni di strada innanzitutto degli ultimi o ci ritroveremo a svolgere una pastorale di conservazione. Amiamo i poveri, cerchiamoli, inseguiamoli e, dalla cattedra ineccepibile della povertà, impariamo a stare accanto a loro.

Coinvolgete, valorizzate, impegnate i laici, riconoscendo i loro carismi e l’ampiezza della loro missione, fate in modo che l’olio ricevuto il giorno della cresima, non resti sulla loro fronte ma percorra le vie della vita di ognuno.

E, per tutto quello che siete, che fate e che farete, presbiteri miei, non posso non ringraziarvi.
Grazie del vostro essere preti, qui nella nostra terra meravigliosa e sofferta, tra la nostra gente, nella nostra Chiesa. Grazie, per la tenacia, la fedeltà, il tempo donato. Grazie per il vostro essere attenti. Grazie per il vostro incondizionato servizio. Grazie perché, nonostante il peso della giornata, avete sempre un sorriso ed una carezza per chi vive maggiori difficoltà rispetto alle vostre. Grazie infinite per la vostra stanchezza, per i vostri scoraggiamenti, per le vostre perplessità, che vi rendono così straordinariamente umani.
Grazie per essere balsamo che cura le ferite. Grazie per il vostro odore delle pecore!
E ancora grazie ai nostri confratelli nel sacerdozio anziani ed ammalati, offriamo anche a loro, con loro e per loro la bellezza di questa giornata.
Grazie per essere il dettaglio più bello nascosto lì, dove cielo e terra si incontrano…dettaglio del nostro orizzonte!

Ma la testimonianza è di tutti e per tutti. A ciascuno di voi, popolo santo di Dio che mi è stato affidato, sento di dire che il compito sacerdotale di Cristo non si è trasferito solo su un gruppo di persone ma su tutto il popolo di Dio: “Ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il nostro Dio e Padre”. L’intero popolo di Dio, ognuno di noi, deve sentirsi unto del Signore e chiamato ad annuncialo per le vie del mondo, a portare la sua speranza, la sua grazia, il suo amore.

Amate il mondo. Assumetevi le vostre responsabilità. Siate protagonisti di questa storia e non semplici spettatori. Date testimonianza di una vita credibile e coerente.

Al tempo stesso, amate la Chiesa, la nostra Chiesa, con tutte le sue fragilità e i suoi limiti. Immischiatevi in essa per renderla sempre più viva, sempre più vera. Impastate la vostra vita con quella dei vostri sacerdoti, camminate accanto a loro, accompagnateli nel loro ministero e lasciatevi accompagnare nel vostro. Aiutateli, prendetevi cura di loro. Amateli soprattutto quando non li capite e fate in modo che ogni volta che si sentiranno stanchi ed incompresi possano trovare sempre un cuore disposto ad ascoltarli e a condividere il loro peso.

Per tutto questo, ringraziamo il Vangelo. Ringraziate il Vangelo.
Perciò, voi, tutti, amate la vita nella sua interezza, con le luci e con le ombre, con i ritmi con cui accade. Non snaturatela, ha una sua lentezza: se la negate perde il colore, il sapore, della vita vera. Fuggite l’inganno dell’illimitato, che vi fa stare in quello che succede senza esserci, perché i vostri occhi sognano altro. Sono già altrove. E non sono alla pagina della vita che state leggendo, al volto che state incontrando, all’emozione che vi sta sfiorando.
È questo che ci insegna l’incarnazione di Dio: ha abitato il frammento, ha dimorato la nostra povertà e debolezza. Lui che quando camminò per le nostre strade fece una cosa dopo l’altra, e mai due insieme, Lui che stava nelle misure degli umani con rispetto per le loro lentezze, con sguardo di tenera compassione per la debolezza e fragilità che incrociava. Un incrocio cui negava fretta di sorpasso: si fermava, si chinava, e rialzava.
Lui, a deporre dal suo cuore e dai nostri occhi le maschere prepotenti, quelle degli uomini della religione, monumenti senza anima, assertori a parole di una perfezione devastante che ignora il carico a peso sulle spalle della gente.
Lui, Dio pastore, che misura il passo su chi fa più fatica, sulla pecora malata, stanca, incinta. “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Andrò in cerca di quella perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia” (Ez 34, 15-16).
Nemmeno nel più lontano gli apparteneva la politica dello scarto. Lui che quando si trattava di fare parabole aveva premura di inventarle con le piccole cose della vita, nell’intento di farle guardare a noi, che troppo spesso le oltrepassiamo con occhi indifferenti.
Vorrei avere occhi e mani, quegli occhi e quelle mani. Io che troppe volte oltrepasso ciò che sconta fragilità e debolezze. Vorrei avere i suoi occhi e le sue mani, che accarezzavano, che incantavano, restituivano valore alla piccolezza, alla debolezza, alla fragilità delle cose.
Provate ad incantarvi per le piccole cose. Ma è poi vero che sono piccole? Provate ad incantarvi per le cose di ogni giorno. Aprite la finestra. Ogni giorno, lì dove la vita vi chiama.
Maria, donna del terzo giorno, ci prenda per mano e ci aiuti a ritrovare la gioia dello stupore e dell’incanto davanti alla vita, per non perdere mai la speranza, per non avere mai paura della tenerezza.

 

+ don Mimmo, vostro vescovo