Assemblea diocesana per l’inizio dell’anno pastorale 2022-23. Relazione del nostro vescovo Giuseppe

Centro Pastorale "Emmaus" – Cerreto Sannita (BN)

Papa Francesco nell’Angelus dell’11 settembre, commentando le parabole della misericordia: la pecora perduta e ritrovata, la moneta perduta e ritrovata, il figliol prodigo perduto e ritrovato chiedeva: “noi imitiamo il Signore in questo, abbiamo cioè l’inquietudine della mancanza? Abbiamo nostalgia per chi è assente, per chi si è allontanato dalla vita cristiana? Portiamo questa inquietudine interiore, oppure stiamo sereni e indisturbati tra di noi? In altre parole, chi manca nelle nostre comunità, ci manca davvero, o facciamo finta e non ci tocca il cuore? Chi manca nella mia vita manca davvero? Oppure stiamo bene tra di noi, tranquilli e beati nei nostri gruppi –, senza nutrire compassione per chi è lontano? Non si tratta solo di essere “aperti agli altri”, è Vangelo! Il pastore della parabola non ha detto: “Ho già novantanove pecore, chi me lo fa fare di andare a cercare quella perduta a perdere tempo?”. Invece è andato. Riflettiamo allora sulle nostre relazioni: io prego per chi non crede, per chi è lontano, per chi è amareggiato? Noi attiriamo i distanti attraverso lo stile di Dio, che è vicinanza, compassione e tenerezza? Il Padre ci chiede di essere attenti ai figli che più gli mancano. Pensiamo a qualche persona che conosciamo, che sta accanto a noi e che magari non ha mai sentito nessuno che le dica: “Sai? Tu sei importante per Dio”. “Ma io sono in situazione irregolare, ho fatto questa cosa brutta, quell’altra…” – “Tu sei importante per Dio”, dirlo, “tu non lo cerchi ma Lui ti cerca”.

Lasciamoci inquietare da questi interrogativi e preghiamo la Madonna, madre che non si stanca mai di cercarci e di prendersi cura di noi suoi figli”.

Cari amici , amiche , sacerdoti, religiosi/e , fratelli e sorelle laici ci ritroviamo per inaugurare insieme il nuovo Anno Pastorale della nostra bella Diocesi di Cerreto Sannita – Telese – Sant’Agata de’ Goti, animati dalla buona volontà di continuare a “camminare insieme”, come abbiamo iniziato a fare l’anno scorso con l’inizio del Sinodo , animati, spero, dalla volontà di rendere più robusta  la comunicazione del Vangelo, spinti da quella inquietudine che vogliamo fare nostra per la mancanza, dall’assenza di tanti dalla vita della Chiesa. Ci siamo già detti che mentre gli altri Sinodi erano una riflessione sulla vita interna della Chiesa, questo Sinodo ci chiede di uscire, andare incontro ad un mondo lontano, distaccato, nemmeno ostile ma sicuramente indifferente.

Quello vissuto l’anno scorso è stato un evento bello, ma non da mettere da parte come quelle cartoline belle che però nel tempo tendono a scolorirsi, sbiadirsi e perdere la loro carica affettiva, ma di un evento che vuole cambiare il volto della Chiesa.

«Camminare insieme – insegna papa Francesco – è la via costitutiva della Chiesa». E proprio sul solco della sinodalità, ci ritroviamo oggi. Siamo laici, sacerdoti, consacrati, rappresentanti del mondo giovanile diocesano, direttori degli uffici diocesani con le loro equipe, rappresentanti di associazioni, cooperative, studenti, (in settimana sono state a cena in episcopio le Presidi degli istituti superiori della diocesi). Siamo uniti oggi per dare il via a quel camminare insieme che è la via costitutiva della Chiesa. Viviamo in un mondo estremamente frammentato; la globalizzazione che avrebbe dovuto far crescere il senso di una casa comune e di un destino comune, purtroppo si è realizzata solo nella finanza e nel commercio. Oggi si parla di deglobalizzazione. Anche con entusiasmo. Così il mondo diventa quello che mi è vicino e mi appartiene, prevale il localismo, il mio orticello, che poi è il mio gruppo, la mia parrocchia, la mia associazione… Assistiamo al diffondersi di muri, di nazionalismi, egocentrismi di gruppo, di comunità cristiana locali e nazionali. Si diffonde, dice papa Francesco una sola globalizzazione, quella dell’indifferenza e della chiusura. La chiusura nei piccoli orizzonti però riempie la vita di nemici.

La realtà è che, se la globalizzazione è in crisi o fallita, è stato perché non si è costruita una globalizzazione politica e spirituale. La corsa agli armamenti – si parla della minaccia dell’arma atomica – è frutto di questo.  È mancata una globalizzazione dello spirito che avrebbe fatto guardare l’altro, come un fratello o una sorella anche se dell’altra parte del mondo. Ecco, oggi vorrei che pensassimo ad una globalizzazione spirituale della nostra vita Diocesana. Non realtà frammentata, ma unita in un pensiero comune e in un camminare insieme, insieme alla chiesa universale.

Vivere ognuno per conto suo, a scompartimenti stagni porta a vivere come in questo nostro mondo, a respirare l’aria del mondo, ma noi non vogliamo questo ed il Sinodo viene in nostro aiuto. L’autore della lettera a Diogneto all’inizio della lettera poneva delle domande: qual è il Dio dei cristiani, quale la religione che permette loro di disprezzare a tal punto il mondo e la morte? E in che cosa si differenzia da quelle dei greci e dei giudei? Sembrano quasi domande sinodali: Cosa è la Chiesa per te? Cosa ti aspetti dalla Chiesa?

Scrive l’autore: “A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani. L’anima è diffusa in tutte le parti del corpo e i cristiani nelle città della terra.  L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo… L’anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo.  

Vale la pena allora forse ricordare che il cammino sinodale è anzitutto un’esperienza spirituale. È lo Spirito infatti il protagonista. È proprio lo Spirito che sollecita la Chiesa a superare la tentazione dell’immobilismo, del «si è fatto sempre così» (Eg, 33). La carne possiamo dire tende alla chiusura, alla frammentazione, al prevalere ed al dominio dell’io; lo Spirito ci vuole portare all’essere insieme, a trasformare l’io in noi. La chiesa non è un insieme di io, ma un noi dove il legame è nel Vangelo e nello Spirito del Vangelo.

Siamo chiamati a sforzarci a uscire da una logica dall’alto, dove pochi decidono per tutti, per adottare uno “stile sinodale”, in cui uomini e donne di buona volontà, di ogni età, condizione, nel confrontarsi, provano a generare uno sguardo comune per quel discernimento comunitario che resta impegnativo e lento. Abbiamo l’ambizione di trasformare le folle in popolo, delle nostre parrocchie farne delle comunità, ma anche la convinzione che non siamo gruppi residuali, ma popolo di Dio. Non siamo irrilevanti, ma possiamo fare molto. Forse ci sentiamo minoranza, ma possiamo essere una minoranza creativa e profetica. Mi permetto di dire che abbiamo tante persone che fanno parte di questa minoranza profetica; gli insegnanti di religione nelle scuole, le nostre catechiste; gli operatori Caritas, gli altri operatori parrocchiali……. Un vero e proprio lievito che può far crescere la pasta fatta per il pane buono del vangelo per sfamare la fame di senso di tanti.

Questo secondo anno del Cammino sinodale è per noi una nuova occasione propizia: desidero dire di cuore grazie ai numerosissimi laici, senza i quali avremmo percorso ben poca strada.  Ricordo con piacere l’incontro, a fine anno, con i facilitatori entusiasti e desiderosi di continuare, incontro però da cui sono emersi anche dubbi e alcune resistenze. C’è sempre chi pensa che alla fine non cambierà nulla. Sono felice di dire che il Sinodo nella nostra diocesi ha suscitato tante energie e speranze di cambiamento che sarebbe irresponsabile disperdere e disilludere. Questo secondo anno sarà caratterizzato, come abbiamo sentito, dai Cantieri di Betania. Siamo chiamati    a potenziare «l’ascolto di quegli ambiti che spesso restano in silenzio o inascoltati». Non posso non pensare al grande mondo che cresce sempre più, dei separati e dei divorziati, al bisogno di comunicare loro l’abbraccio della Chiesa; Non posso non pensare al vasto mondo della povertà – abbiamo molto da imparare dai poveri; a chi investe nell’impegno sociale e nel volontariato; al grande mondo degli imprenditori; a quello delle amministrazioni comunali; al mondo complesso dei padrini e delle madrine ecc. Viviamo non per molti, ma per tutti.  Che nessuno dica che la Chiesa non ci pensa, ma dicano piuttosto a me la chiesa non interessa.

La pagina evangelica dell’incontro di Gesù con Marta e Maria, scelta come icona per il secondo anno sinodale, è molto bella e ci dona uno sguardo su un fare che siamo chiamati a vivere che però va illuminato dall’ascolto della Parola di Dio. Ad un incontro una donna molto attiva mi chiedeva : Il fare non è preghiera? …..ma la preghiera non è anch’essa un fare?  La preghiera resta la prima opera.

Uno dei doni del Cammino sinodale è che ci allena al confronto e al dialogo: durante il primo anno abbiamo scoperto il valore di un coinvolgimento. Ognuno di noi può dirlo: nessuna comunità, grande o piccola, rimane uguale a sé stessa se si ritrova e si confronta, consapevoli anche che da ogni di confronto o se ne esce più uniti, o viceversa – se si vogliono solo affermare le proprie idee e ci si affronta in modo semplificatorio – più estranei e divisi. La democrazia che chiede il sinodo non è verticistica, ma partecipata, fondata sul dialogo e non solo sulla contrapposizione perché venga ridisegnato il volto di una Chiesa che incarna i tratti del Samaritano del Vangelo, che è il paradigma della Chiesa che Paolo VI delineò alla conclusione del Concilio Vaticano II. Una Chiesa sinodale è una Chiesa che condivide «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce», soprattutto quelle «dei poveri e di tutti coloro che soffrono» (Gs, 1).

Cosa resta del Cammino sinodale dell’anno scorso? In ogni parrocchia devono nascere, rinnovarsi, rivivere i collegi consultivi, quelli che devono aiutare il parroco nella corresponsabilità della vita parrocchiale: il consiglio affari economici ed il consiglio pastorale parrocchiale. ( At.)

La sinodalità non è chiusura nella Chiesa, ma anzi camminare insieme alle folle e al mondo, anche a quello lontano. Pensiamo intensamente all’Ucraina in questi mesi. Non dobbiamo abituarci alla guerra: c’è il rischio di una assuefazione alle notizie, che continuamente ci arrivano dai media e che ci inducono a considerarla ineluttabile. La guerra non porta alla pace. Abbiamo bisogno di tenere alto l’interesse e la speranza per la pace. Nelle scuole, e penso anche nelle parrocchie vivremo un percorso di riflessione sulla pace, a partire da un documento scritto insieme a giovani liceali che abbiamo chiamato: Patto per la pace.

Per questo, nelle nostre chiese, preghiamo sempre e con insistenza e fede per il “gran dono della pace”, come diceva papa Giovanni.

Oggi sono 60 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, e come Chiesa, ci troviamo a vivere quello che per tanti è l’evento più importante dopo il Concilio, il Sinodo. Tornano alla mente le parole pronunciate in apertura del Concilio da papa Giovanni, quell’11 ottobre 1962, in cui si distaccava dal pessimismo tanto diffuso, non solo nella Chiesa ma nel mondo di allora (ricordiamo sprofondato nell’inverno della guerra fredda, mentre i cristiani erano perseguitati e repressi nei paesi dell’Est), e faceva del Concilio un segno di speranza e unità del mondo: “Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo”. Papa Francesco cita nell’Evangelii Gaudium proprio queste parole di papa Giovanni per contestare il “pessimismo sterile”: «La carenza di spiritualità profonda che si traduce nel pessimismo, nel fatalismo, nella sfiducia. Alcune persone non si dedicano alla missione perché credono che nulla può cambiare e dunque per loro è inutile sforzarsi». Non restiamo a misurare le delusioni, ma viviamo la speranza e la visione di fede di papa Giovanni che era nutrita dalla frequentazione delle Scritture e dalla sua grande esperienza di umanità e simpatia con diversi popoli del suo tempo. Il Concilio comunicò un grande entusiasmo per una Chiesa rinnovata e dei poveri, ma anche per la pace e il cambiamento del mondo. Oggi la Chiesa vive la primavera della speranza e della fede e noi lo comprendiamo meglio quando non siamo imprigionati dall’impazienza (del “tutto subito”) o dal pessimismo (“è impossibile”).

È quasi un anno e mezzo che sono qui in Diocesi e posso dire che ho trovato tanti segni di speranza che aiutano a guardare al futuro. Voglio pensare alle nostre parrocchie, veri baluardi di preghiera e di carità in un mondo consumista e calcolatore. Quest’anno don Pino di Santo, non avrà una parrocchia da seguire, ma investirà le sue energie perché cresca e maturino le nostre Caritas parrocchiali perché non siano centri per bollette e distribuzione di alimenti, ma veri e propri spazi di accoglienza, ascolto e accompagnamento. Cresce infatti il malessere nelle famiglie; c’è bisogno di aiuti ma anche di parole buone. A fine mese è previsto un convegno per gli operatori Caritas, abbiamo invitato il delegato regionale della Caritas, don Carmine Schiavone.   Vogliamo pensare agli oratori che  sempre più devono essere spazi per bambini, giovani, adulti ed anziani; vogliamo pensare all’impegno dell’AC ; all’opera dell’AMASIT, all’impegno di Policoro; alle realtà giovanili che stanno nascendo in diocesi; all’impegno della Cooperativa Icare; alla ricchezza di vita e storia pastorale come la Scuola  di formazione teologica pastorale; la scuola di formazione socio politica – abbiamo tutti bisogno di imparare a costruire quella casa comune che è anche impegno civile. Vogliamo pensare allo zelo dei nostri uffici di Curia che ho incontrato in questi giorni: Pastorale Missionaria, Ufficio Liturgico, Catechesi, Ufficio Tecnico, Economato, la Cancelleria, Migrantes, Ecumenismo, Ufficio Famiglia, Pastorale giovanile, Pastorale Sanitaria. Non sono solo uffici, sono espressione della preoccupazione della Chiesa per la nostra Diocesi, perché a tutti arrivi il Vangelo. Riprendiamo quest’anno anche il cammino dei diaconi permanenti; quest’anno abbiamo 6 candidati così come dobbiamo pregare per le vocazioni; abbiamo 4 ragazzi in cammino vocazionale. Preghiamo troppo poco per le vocazioni.

Vogliamo pensare ad una pastorale della terza età perché come diceva il Papa nel suo ultimo messaggio: Nella vecchiaia porteranno ancora frutti. Ma poi c’è la sfida della solitudine dei disabili, il disagio dei giovani, la sofferenza dei bambini, la solitudine dei malati.

Soprattutto vogliamo fare nostra l’inquietudine di cui ho parlato all’inizio: come arrivare ai lontani che oggi rappresentano le tante pecore perdute mentre a noi è rimasta una pecora che non si è perduta. Cari amici, il Signore è con noi, per questo dobbiamo partire dalla parte migliore che è lo stare ai piedi di Gesù. Dice il salmo 126: Se il Signore non costruisce la casa invano vi faticano i costruttori. Con Lui impareremo a guardare il mondo con i suoi occhi e faremo nostra la perseveranza del contadino che non si soffermerà sui semi sprecati, ma solo su quei semi che lì dove troveranno un terreno buono, sapranno dare frutto.

Cari amici, siamo una bella Chiesa, siamo una bella Diocesi ed il Signore ci ama. Ci aspetta un anno importante viviamolo con fiducia e con passione, non per forza ma volentieri. E così sia.

11 ottobre 2022

† Giuseppe, vescovo