“Josè”

Colombia… tempo fa

Io con un piccolo gruppo di educatori provenienti da varie parti d’Italia, uniti da un impegno di cuore, di credo e dal medesimo intento: migliorare sempre più la qualità delle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, consapevoli che solo lo scambio e l’intreccio di esperienze maturate su differenti territori potesse essere fruttuoso ed efficace e apportare un reale beneficio ai ragazzi coinvolti dal dramma della droga.

Per noi quel viaggio verso una realtà sicuramente più estrema e difficile rispetto ad altre, rappresentava una battaglia da vincere.

Avevamo da poco lasciato Bogotá per recarci presso il carcere, al cui interno, peraltro, forse, unica realtà al mondo, era nata una comunità terapeutica: i tossicodipendenti con gli educatori e accanto le guardie carcerarie in un cammino condiviso. Un percorso forte in cui si dipanavano realtà e vissuti altrettanto difficili e grevi da raccontare, da gestire e forse ancor di più da condividere. Avremmo potuto rimanere nella struttura carceraria un intero giorno, un dì prezioso perché ancora una volta accanto a ragazzi che avevano bisogno di un aiuto, seppur senza gridarlo.

E questa era la speranza che portavamo nel nostro bagaglio umano.

Scendendo dall’altopiano verso l’oceano, si poteva godere della bellezza di spazi senza fine; strade ampie, ma ancora rudimentali, incorniciate dal verde intenso e incontaminato di piante suggestive mai viste prima, alle quali l’intensità dei raggi solari regalava un fiero sorriso, che faceva capolino tra la luce e la fitta ombra.

Lì, Dio aveva creato il suo Paradiso! Tutto era inesauribile anche la sensazione di meraviglia che ognuno di noi leggeva negli occhi nell’altro. Eravamo rapiti: guardavamo e ammiravamo in silenzio per non interrompere o scalfire quella magia… ci sentivamo immersi in un miracolo di Dio.

Arrivati ad un aeroporto quasi di fortuna, un piccolo velivolo ci avrebbe condotti sull’isolotto.

Dai finestrini corrosi dalla salsedine, si apriva sotto di noi il blu intenso dell’oceano in tutta la sua maestria e intorno, fino a dove lo sguardo si perde, una distesa di cielo senza confini. Rimanemmo col fiato sospeso fino all’arrivo non per paura del volo quasi incerto, ma per le opere di Dio. Lo ringraziai intimamente.

Giungemmo nella struttura principale, che si imponeva alla vista per il triste grigiore del cemento grezzo che contrastava nettamente con i colori che ancora cantavano la vita. Lì, la gioia dell’esistenza bisognava cercarla come si cerca un ago nel pagliaio.

Sentii la morsa della sofferenza: tra la felicità e l’infelicità il limite era sottile, ma profondo come un abisso.

Fummo accolti dagli operatori e dai responsabili della comunità. Trascorremmo la mattinata confrontando le diverse metodologie di approccio al problema, condividendole, discutendo sul meglio per i ragazzi e sul loro bene, non trascurando mai il nostro credere in loro… persone che rappresentavano il centro e il fine di qualunque progetto, di qualsiasi approccio terapeutico, di qualsivoglia percorso.

Quel momento divenne il luogo giusto, dinamico per raccontare noi stessi con le nostre esperienze in merito ricche di particolari; un momento fondamentale che avrebbe costituito il tesoro da custodire, perché ci avrebbe insegnato e da cui avremmo imparato e che, nel tempo, avremmo potuto ridonare in piccole gemme di vita. Ricordo quella mattina come un vento forte che trasportava il vigore di tante realtà.

In seguito, ascoltai tanti ragazzi, partecipai in silenzio al racconto delle loro storie tessute col disagio, con le mille disapprovazioni e incomprensioni, con le inevitabili e conseguenti frustrazioni. Vite appena iniziate ma vissute senza un progetto, per volontà o non per volontà, inebriate da confuse e finte illusioni, con la costante paura di non farcela nel migliore dei casi o di non volercela fare nel peggiore di altri casi, troppi. Che amarezza! Ma ciò che mi colpì fu che nel loro “dire” balzava un velo del quale desideravano che ci si accorgesse, che volevano mostrare o forse scoprire… la speranza di un riscatto, la speranza di essere accettati… la speranza in un futuro diverso e sicuramente migliore. Sembrerebbe una frase fatta, ma in quel contesto, aggravato dalla desolazione, assumeva un significato profondo, perché sovraccarico di attese mai raccontate. La loro attesa era la mia speranza: quel desiderio fermo e invincibile di vederli felici, sempre.

Per arrivare all’altra sezione carceraria utilizzammo l’unico mezzo a disposizione: il cavallo.

Condividemmo il pranzo in una sala in cui le voci rimbombavano all’unisono provenienti dai tavoli disposti per quattro, ora più acute ora più basse ora interrotte da qualche risata rubata al momento. Per un attimo ripensai ai miei ragazzi del Centro Calabrese di Solidarietà e ne ebbi nostalgia… li avrei voluti lì, con me, con noi. Ciò nonostante non avrei voluto essere in nessun altro posto. E ringraziai Dio.

Al tavolo che io occupavo erano seduti due ragazzi detenuti, un educatore e naturalmente l’interprete senza il quale qualunque parola si sarebbe trasformata in faticosa ricerca per comprendersi.

Il pasto non fu certo lauto… una scodella corrosa dal tempo con del brodo dentro, non sapevo cosa fosse, ma avevo fame e mi accinsi a consumarlo. Lo stesso fecero i commensali senza commenti, in silenzio.

Che tristezza, che miseria anche qui! Non potei fare a meno di pensare a tutti quei ragazzi che in quel medesimo momento stavano gustando un buon pasto, proteico, profumato, caldo.

L’eterna disuguaglianza davanti alla quale non può esserci alcuna rassegnazione!

Tutto questo mi faceva male e ancora oggi ne porto la ferita.

Notai il ragazzo seduto di fronte a me, José, che con estrema convinzione e delicatezza e lo sguardo assente fece il segno della croce al quale seguì una mesta e silenziosa preghiera.

Ne rimasi colpito e un senso di colpa misto a disagio mi indusse a lasciare di colpo il cucchiaio già pronto per un altro boccone. Non potei fare a meno di pensare “Caspita che lezione mi ha dato quel ragazzo! Oggi mi sento più piccolo del solito!” Presi fiato e coraggio e gli chiesi:” Per te la preghiera è una abitudine o solo un momento?”

E lui: “Io sono povero, cresciuto in una famiglia povera. Hai visto cosa c’è per le strade di Bogotá? Per ravvisare la ricchezza devi andare solo in certi quartieri… tutto il resto è miseria e desolazione. Chi riesce a mangiare un giorno non ha la certezza che lo farà l’indomani. Io oggi sto mangiando, ieri ho mangiato e domani lo farò ancora. Qui, riesco a placare la fame… ma i miei familiari, che stanno fuori, non so se oggi mangeranno. Allora prego Dio, perché almeno Lui non si dimentichi di loro; perché possa alleggerirli nella ricerca del pane e consolarli.”

Nelle sue parole e nei suoi gesti incontrai Dio e riscoprii, ancora una volta, la bellezza dell’amore che non conosce tempo e confini.

Ma pensai anche che qualunque parola proferita per rincuorare José, sarebbe stata manchevole, inadeguata effimera in quella cornice di raggelante tristezza!

José, esile e segnato dalla vita, si rivelò un grande maestro e come tale catturò la mia anima.

Mi aveva insegnato che scopriamo l’essenza e il valore della preghiera quando diventa apertura. Perché nell’umiltà e nella disarmante sincerità vive un cuore aperto che è raggiunto dal raggio di Dio che illuminandolo, lo arricchisce, per poi rifrangerlo verso chi ne è testimone.

In quel caso io ero il testimone e mi beai di quella complicità di osmosi spirituale.

Terminato il pranzo, il ragazzo mi condusse presso la sua cella.

Oltre la povertà… lo squallore!

Piccola, in penombra, muri squarciati, unica finestra senza vetro… fosse servito per guardare senza filtri un pezzo di cielo! Relegato all’angolo giaceva un materasso con un cuscino; sbirciai meglio, perché volevo vedere ciò che in realtà non c’era… magari un lenzuolo o una coperta! Ma sul cuscino era poggiato un libro capovolto. Ero ancora sulla soglia di quella cella e José incalzò: “Io sono qui perché ho sbagliato ed è giusto che paghi per i miei errori. Ma tra quelle pagine, indicandomi il libro, c’è il segreto della mia libertà”. Mi avvicinai a quel libro, lo girai e lessi: Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo.

Rimasi ancora una volta senza parole perché, senza alcun dubbio, mi trovavo di fronte a un grande maestro.

Il Vangelo viveva in quella misera desolazione, la inondava di luminosità ed elevando le nostre anime, ne cambiava le sembianze come la rosa più fresca che emana un intenso profumo che sa di soave eternità.

Dio attuava il miracolo: con la Sua Verità, con la Vita di Gesù Cristo, José aveva costruito le sue ali non per sognare, non per evadere dalla cella, bensì per librarsi in un volo di profonda umanità, per scoprire e andare incontro alla sua Pasqua, per risorgere.

Ancora una volta incontrai Dio nelle ali della fede di quell’esile ragazzo che aveva scoperto l’incanto dell’infinito.

E la missione mi aveva regalato l’incontro con un Vangelo ancor più profondo, più straordinariamente umano perché nell’abisso del degrado, gli occhi di José avevano visto la luce della PAROLA e me l’aveva donata sotto una nuova veste. Ne rimasi rapito e arricchito da questo incontro. Solo quando vivi la vita dei drop-out accade che impari ad avere coraggio, impari ad essere un uomo umano, impari ad amare in ogni giorno un po’ di più e quando guardi avanti, la strada davanti a te è senza fine. In quell’attimo ti senti testimone e portatore dell’unica verità.

Ed è nel Vangelo che vive il segreto della nostra libertà. Spesso obblighiamo noi stessi ad un carcere interiore che ci fa male, ma del quale non riusciamo a liberarci. Imprigionati alle nostre paure che non sappiamo affrontare; legati a degli schemi oltre i quali non riusciamo a tendere lo sguardo; asserviti a poteri effimeri e così usiamo maschere… una per ogni circostanza. Come ci possiamo liberare dalle catene che non ci consentono di vivere ma solo di sopravvivere? Non certo con un salvataggio di emergenza! La forza, la libertà, e l’amore che nel Vangelo prendono vita, sono le nostre braccia dell’accettazione che stringono la fatica del vivere, i dolori che affliggono, le tribolazioni che non si spengono, la croce della povertà… per aprirci alla vera libertà che è semplicemente vivere; vivere fino in fondo, soffrendo, gioendo, amando… perché ne vale la pena! Gesù ce lo insegna in ogni giorno qualunque diverso dall’altro.

La vita è il dono più bello e José ha saputo prenderlo, facendolo suo. Ogni giorno è ripartenza!

È quella Parola che dona senso al nostro cammino, induce e dirige i nostri passi.

È quella Parola che libera e guarisce. Spesso ci manca il coraggio di affidarci, non sappiamo credere… abbiamo paura.

La Parola di Dio non può essere incatenata.

Non tradire mai quella Parola che scorre come un fiume in piena nella vita di José, nella mia vita e nella tua vita.

† don Mimmo, Vescovo