Mia cara comunità,
sono più che mai vere le parole del cardinale C.M. Martini: la differenza importante oggi non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti! Una differenza che pone l’accento sul dialogo. Ha affermato papa Francesco al Convegno Ecclesiale di Firenze: “Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria fetta della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme”.
Siamo chiamati tutti a cercare la verità e il bene costruendo insieme una società più giusta, inclusiva, un mondo più ospitale, relazioni autentiche, una Chiesa più povera, in uscita, in ascolto degli ultimi e capace di richiamare le Istituzioni alla cura del bene comune. È tempo di rinunciare a trincerarsi dietro il muro dell’abitudine, del potere, dietro il tempio sacro della rassegnazione e dell’indifferenza. È tempo di interrogarci profondamente sulle finalità realmente condivise.
La conversione, la verifica dei criteri nella logica della comunione donata e possibile sulla terra, rischiano di diventare compito oneroso, sacrificio, in quanti rinunciano a interrogarsi, a lasciarsi coinvolgere dall’offerta gratuita di fraternità che rigenera la storia, ne svela il senso, e manifesta Dio nell’umano redento. Siamo diventati restii a riconoscere nella presenza dell’altro un dono, nella presenza del povero la salvezza, nel servizio il vero privilegio, nella comunità la sfida di una solidarietà necessaria, in rapporto alle strutture e alle reali risorse della nostra terra.
Sempre però la Parola di Dio interpella la nostra libera responsabilità, sempre ci indica la via della vita piena e vera, della prossimità gratuita che si incarna nella preferenza del debole. “Nel cuore [dei figli di Dio] dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, 9). Lo Spirito discerne in noi i nostri pensieri e sempre ci apre alla speranza della conversione, della nostra vocazione, al futuro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt 3,15).
La liturgia della prossima domenica, terza di Quaresima, ci mette di fronte a un gesto di Gesù che quasi ci scandalizza. Il vangelo di Giovanni lo pone all’inizio del suo ministero. Gesù si costruisce una sferza e con un gesto violento caccia via i mercanti dal tempio, gente che ha trasformato il sacro in calcolo, in mercato, la presenza di Dio in potere, commercio e sopruso.
Potremmo non sentirci provocati a pensare perché nelle nostre chiese non ci sono tavolini per cambiare denari, per vendere colombe ai poveri, pecore e buoi ai ricchi, da offrire a Dio. Potremmo anche essere convinti che questa parola sia per i pochi che oggi frequentano ancora le chiese, oppure per i preti e i religiosi che devono guardarsi dalla tentazione del potere e delle ricchezze. Ma essa giunge a noi per aprire i nostri orecchi.
L’ascolto della realtà concreta, degli ambienti in cui operiamo, l’ascolto dell’altro, della Parola, è efficace in noi come la pioggia e la neve che in questi giorni scendono dal cielo e fecondano la terra. Apre varchi in noi per smascherare le nostre ipocrisie, per rompere i nostri silenzi colpevoli, per abbattere i tentativi nascosti di salvare noi stessi e i nostri interessi, per decostruire le nostre esposizioni dottrinali lontane dalla vita delle persone, per rovesciare i banchi dei nostri baratti e adulteri, per spezzare le catene che legano l’altro ai nostri pregiudizi, ai nostri vantaggi materiali e spirituali. Riconosciamo la logica di peccato che attraversa il nostro vivere comune e anche noi! Impariamo a fare il bene, ad accogliere il perdono gratuito di Dio, perché i nostri occhi vedano, attraverso la sincerità del nostro cuore, possibilità di bene dentro di noi e intorno a noi.
Non facciamo del servizio e della cura un luogo di mercato, una spelonca di ladri! Carrierismi, poteri e privilegi, non c’entrano nulla con la chiamata a servire oggi il Signore nell’umano.
Spesso noi preti siamo impressionati dalle assemblee domenicali sempre meno numerose e pensiamo a strategie per attirare; spesso i laici avvertono l’esigenza, pur bella, di essere accompagnati ma restano ancora troppo legati al compiacimento dei sacerdoti, nel chiuso di un tempio senza tempo, senza iniziativa, sempre meno aperto alle fatiche di uomini e donne che cercano di servire Dio nel difficile campo della politica, nella complessità dei nuovi problemi che segnano il sociale. Una sorta di eccessiva preoccupazione attraversa tutti e può fuorviare da ciò che il Signore veramente chiede. Quale presenza dei credenti oggi nelle strutture che in maniera sempre meno evidente piegano le loro finalità al facile profitto, allo sfruttamento dei più deboli, alla forza dei potenti, alle logiche di peccato?
Siamo tutti chiamati a discernere le vie per una comunione possibile che abbia il sapore della reale condivisione della vita.
Solo la ricerca di giustizia, sui passi di un amore simile a quello di Cristo, si fa profezia!
La Chiesa, nella sua visibilità, nella sua struttura di corpo, ha bisogno più che mai di persone che credano nella comunione fraterna, nella reciprocità e diversità di vocazioni, sciogliendo conflitti, reticenze, allontanando ogni ricerca dei primi posti, di privilegi e riconoscimenti personali. La Chiesa ha bisogno di ritrovare al suo interno l’essenzialità, la capacità di riflettere insieme, la gratuità della formazione della coscienza e del discernimento del bene, la verifica del proprio operato, il suo essere corpo, sacramento di salvezza.
Come vorrei che ci rendessimo conto di più che il rinnovamento tanto auspicato parte davvero da ciascuno di noi, dal nostro coraggio, dal nostro impegno, dalla qualità della nostra presenza e della nostra preghiera. Non sviliamo la speranza, non rendiamo vana la croce di Cristo!
Quanto vorrei che potessimo incontrarci tutti all’unico tavolo della corresponsabilità serena e gioiosa, guardarci e ascoltarci, ricordare insieme che chi ci conduce è il Signore, unico e vero Pastore delle pecore, che i nostri orecchi sono capaci di riconoscere e ascoltare la sua voce, che non siamo lasciati a noi stessi. Spero che impariamo a meravigliarci dell’opera di Dio! Egli è fedele, nonostante la nostra troppo frequente ingratitudine.
Ci è chiesto di ripartire dalla comunione che forse avvertiamo zoppicante, dalla fraternità che sentiamo ingabbiata da errori, chiusure, contese. Ci è chiesto di affidarci vicendevolmente, di porre la nostra fiducia in Dio e di credere nell’uomo, nella sua capacità di vedere il bene.
Il tempio di cui parla Gesù è la casa del Padre, è il suo corpo, è il compimento della comunione tra Dio e l’uomo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. La casa del Padre è il segno e il dono di una comunione che non finisce, che resiste: luce, vita, cammino possibile di fratelli. È il luogo della presenza di Dio che ci viene incontro, ci accoglie come siamo, non chiede nulla in cambio, luogo in cui la nostra parola, l’ascolto e l’agire possono farsi preghiera, adorazione, celebrazione. Tutto si rivela dono, tutto ci è dato perché altri possano vivere, non per spadroneggiare, facendoci grandi sui bisogni altrui. Spogliamoci di ogni paura.
Chiediamo l’umiltà di uno sguardo capace di interpretare la storia dalla parte del Signore, della sua misericordia, perché possiamo riconoscere la sua presenza nella sete di autenticità, di infinito, di compimento, che è presente in ogni uomo.
La vera preghiera è offrire possibilità di riscatto. Non buoi, pecore o colombe, non ornamenti. La salvezza non si compra, non si baratta. La si accoglie insieme.
Il profeta Isaia ce lo ha ricordato: «Quando stendete le mani io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,15-17).
La Chiesa in questo tempo storico può molto. Cerco di farmi capire consegnandovi un’esperienza che mi ha molto segnato in questi giorni. Era una di quelle mattine in cui il peso delle responsabilità, le difficoltà, la delusione per il comportamento negativo di alcuni, mi arrivavano come giudizi duri su me stesso. Rassegnazione, senso di fallimento, tristezza. A un tratto qualcuno ha bussato al portone dell’episcopio. Ero solo, era presto. Mi sento chiamare per nome. Scendo ad aprire. Un povero bussava alla mia porta. In un momento mi sono sentito tirato via dal mio ripiegamento su me stesso, ricollocato nel dono, nell’evento. Sono risalito con la consapevolezza di dover passare in cappella e ringraziare. È stato in quel momento che ho capito che la mia speranza quella mattina aveva bussato alla mia porta, alla porta del mio cuore!
La presenza del povero ci ricorda che non è il tempo delle conclusioni ma del nuovo inizio. È il tempo di organizzarci, di progettare la speranza. È il tempo della semina. È il povero che ci tira via dalla pretesa dei frutti, dalla disperazione dei risultati insufficienti, dai numeri delle statistiche economiche. È il povero che ci libera dall’efficacia immediata di una comunione che è più che altro gratificazione di noi stessi, come risucchiati da un “consumismo spirituale”, dalla necessità di risultati visibili.
Il volto del povero ci ricorda la speranza della nostra chiamata, ci restituisce la gioia di poter dare e la gratitudine per avere ricevuto.
Nel povero l’amore di Cristo si fa presenza visibile e privilegiata; il suo farsi ultimo ci converte a lui. Dalle ferite del tuo Signore, mia Chiesa, dalla sua debolezza, possa tu riacquistare la forza e la sapienza di chi sa chinarsi, di chi sa occupare gli ultimi posti, di chi sa opporsi alle logiche di peccato senza tristezza, smarrimento o lagnanze.
La vera povertà è dare la propria vita in questa storia, fermento di cambiamento e di risurrezione!
Quante volte abbiamo guardato il povero fuori dalla porta, pensando che sono altri che devono occuparsene? Facciamo entrare il povero, permettiamogli di entrare nel “tempio”. Lasciamoci abitare dall’inquietudine, condividiamo il sogno di Dio che non si stanca di voltarsi verso di noi, di attirarci a lui: introduci in casa, vesti, dividi il pane …
I poveri sono soggetti di evangelizzazione, segno di affidamento e attesa. Profezia di Dio!
La preghiera del povero sale a Dio. Lasciamo che il suo appello ci scaldi il cuore, ci cambi e converta la nostra preghiera. Speriamo e auspichiamo il rinnovamento di una solidarietà che coinvolga davvero tutti responsabilmente. Lasciamoci condurre alla beatitudine del regno presente!
Faccio mie le parole di San Paolo: “Vi supplico, in nome di Cristo, lasciamoci riconciliare con Dio!” Torniamo a lui perché possa dimorare presso di noi. Possa farci sentire la potenza della sua debolezza, del suo amore speso senza riserve fino alla croce e risorto! La speranza torni a bussare alla vostra porta, come ha bussato alla mia, e ci conduca alla lode e al ringraziamento. “Chi offre la lode in sacrificio, questi mi onora” (Sal 49). Insieme, ogni nostro passo sia lode della sua gloria!
+ don Mimmo, vostro vescovo