Caro Giò,
scrivo pensando alla tua vita, alle domande che la abitano, alle tante paure e difficoltà con cui ogni giorno ti ritrovi a fare i conti, soprattutto a quella “fatica” di sentirti vulnerabile. Non l’accetti proprio!!! Come se l’essere vulnerabili fosse una condanna. Eppure sai che quanti hanno assunto le proprie ferite, non cessano di essere feriti. Ma è la consapevolezza della nostra fragilità, insuperabile perché costitutiva della condizione umana, che può renderci capaci di vibrare alle sofferenze altrui e di impegnarci in un accompagnamento che aiuti l’altro a compiere lo stesso cammino.
Le ferite che ci fanno soffrire non sono necessariamente destinate a distruggerci. Assunte, integrate e redente, esse possono contribuire alla nostra crescita umana, abilitandoci a trasmettere agli altri, nel quotidiano scambio relazionale, la ricchezza della nostra umanità. È la disponibilità a «guardare» le nostre ferite che ci dà la possibilità di essere presenti per l’altro; la capacità di accogliere le nostre ferite rende capaci di offrire agli altri un vero aiuto.
Sai, Giò, uno ha fede se crede, principalmente, all’amore. Se crede che Dio ama il mondo, tutti gli uomini, ciascuno di noi.
E, accanto all’amore, c’è sempre l’immagine ruvida della croce, per capire in che modo Cristo ha dimostrato il suo amore per il mondo.
La croce dice un amore sconfitto, eppure vittorioso; umiliato, eppure circonfuso di gloria; tradito, eppure fedele; non dimenticare mai che è un giusto che viene crocifisso. Il vero credente trova la salvezza guardando in direzione della croce di Cristo. E questo dono determina una crisi: può essere accolto o respinto.
Vedi, Giò, qualche settimana fa sono stato ad Assisi e mi sono ritrovato a pregare davanti al crocifisso di San Damiano, nella basilica di santa Chiara.
Il Cristo di San Damiano è il Cristo morente ma, insieme, è il risorto che esce dalla tomba. Il gesto di quelle braccia è quanto mai significativo. Non è la posizione di un corpo schiacciato, c’è, piuttosto, un sorprendente slancio verso l’alto. Quelle braccia sembrano ali. Prova a contemplare il miracolo delle braccia aperte e prova a sentire che in quell’ abbraccio ci sei anche tu. Questo crocifisso manifesta un’armonia straordinaria. Il volto, in particolare, esprime dolcezza. Una dolcezza velata di tristezza. Ed è una tristezza che acquista una intensità nello sguardo.
Se segni di dolore si possono cogliere, questi segni vengono rivelati soprattutto dallo sguardo che il crocifisso volge intorno. Cristo non soffre per la croce, ma per ciò che vede dalla croce.
La croce è il luogo alto, la posizione privilegiata da cui Cristo può abbracciare con lo sguardo, lo sguardo dell’amore, il panorama sconvolgente di tutta la miseria e di tutte le miserie dell’umanità.
La storia di Cristo è la storia di una grande Passione, di una speranza appassionata. Proprio per questo motivo essa è diventata anche la storia di una sofferenza inaudita. Per questo al centro della fede si colloca la passione di Cristo appassionato.
Ma nel crocifisso di San Damiano possiamo e dobbiamo leggere anche altro: un Dio di tenerezza e di misericordia, che guarda con gli occhi dell’amore la durezza del mondo degli uomini. È la cattedra della croce, così diversa dalle cattedre che tengono le distanze e gelano il cuore. Se non c’è amore, nessuna cattedra, nessun sacerdozio, nessun profeta potrà mai dire Dio.
Da quella croce il Cristo comunica a Francesco, ad un uomo, la propria emozione, la propria tenerezza di fronte alla sofferenza degli uomini. La sofferenza, il segno dei chiodi, sono solo la conseguenza di quell’amore infinito.
Da quella cattedra Francesco non ha imparato solo la lezione del dolore ma ha imparato a diventare sempre più appassionato, compassionevole, misericordioso, portatore di tenerezza sulla dura crosta della terra, vulnerabile di fronte alle sofferenze altrui. Sì, anche vulnerabile.
Giò, su quella croce c’è questa verità: l’amore è vulnerabile. Dio è diventato vulnerabile, sedotto dall’amore per gli uomini. La croce ci dice questa vulnerabilità di Dio, la vulnerabilità dell’amore.
Se tu ami, sei allo scoperto, puoi soffrire, sei anche tu vulnerabile. C’è un modo, infallibile, per non soffrire, per non rimanere feriti, per non essere vulnerabili, ed è quello di non amare, di non esporsi, di non discendere, di stare sempre ai piani alti, di farsi uno scudo, una corazza. Fatti una corazza di indifferenza per non essere vulnerabile. Ma questa logica non fa la salvezza. E non è la tua verità.
Amare è sempre un rischio e significa essere vulnerabili.
I ragazzi della mia comunità mi hanno fatto capire che la cosa più preziosa è il cuore. La mia testa e le mie mani non hanno valore se non nella misura in cui sono a servizio dell’amore.
È vero che la loro debolezza, la loro fragilità, la loro fiducia mi hanno scosso, mi hanno fatto mettere in discussione, chiamato in causa. L’essermi messo in discussione mi ha fatto passare dalla solitudine del mio “orgoglio” e delle mie paure alla compassione, alla comprensione, alla tenerezza e alla condivisione.
Proprio camminando con i poveri, ho toccato con mano la mia povertà. Le loro ferite mi hanno fatto com-prendere le mie.
Sì, Giò, la verità è che i poveri scomodano. Il grido profetico che alzano per essere com-presi, per ottenere un po’ di amicizia e perché si dia loro una possibilità, mi ha rivelato la mia durezza, il mio egoismo, la mia resistenza ad ogni cambiamento interiore.
Mi hanno fatto capire quanto io sia prigioniero delle mie paure e del mio modo di pensare. La stessa paura che provi tu: quella paura che toglie il fiato, blocca i movimenti, cancella ogni pensiero; un abisso che improvvisamente si apre senza lasciare una via d’uscita. Quando si è afferrati da questa paura, tutto appare precario, se non addirittura inutile.
Il fatto è che nessuno di noi è in grado di sopportare la propria paura, perché questa ci svela che nessuno di noi è in grado di sostenere se stesso.
Solo Dio è in grado di sostenere gli uomini schiacciati dalla paura. Ed avere fede vuol dire riconoscersi fondati su quella forte roccia che è il Signore. E Dio è Amore! Solo dalla verità della propria fragilità si può imparare ad aver fede. Il rischio che ci impone di giocare tutto, e ad occhi aperti, sulla fiducia di essere radicati in Dio.
Questa fede non è una fuga dal mondo, ma è, semmai, la più densa esperienza della povertà del mondo. E diviene pura esperienza di libertà: una libertà che accetta il rischio di sperare in Dio, quando tutte le nostre paure vorrebbero invece rinchiuderci…
É nei poveri e con loro che io incontro Gesù Cristo; Gesù nascosto in chi ha fame o sete, in chi non ha casa o vestito, in chi è straniero, ammalato o prigioniero.
Ma devo imparare a incontrare Gesù anche nella mia povertà. Ho bisogno di Gesù, nostro Salvatore, per imparare ad amare. Gesù, che ama, è nascosto nelle ferite, anche nelle mie ferite. Il suo cuore ferito è nascosto nella mia debolezza, ma anche nelle ferite dell’umanità.
Povero e povertà non sono categorie solo sociologiche. In ognuno di noi è nascosta una zona di povertà dalla quale fuggiamo, ci nascondiamo e ci difendiamo. Nell’illusione che negare quella debolezza ci renda più forti. In realtà nessuno di noi è profondamente se stesso fino a quando non riesce ad abbracciare con libertà, delicatezza e affetto, la sua fragilità. In quell’incontro è nascosto il segreto della nostra autenticità. La parte “piegata” in noi ci ricorda che siamo chiamati ad alzarci per ritrovare primavera e speranza. Sempre. Per noi e per chi ci è accanto.
Cristo ha posto chi ha fame e chi soffre fra le braccia della sua Chiesa, affinché possano guarirci, farci scendere dai nostri piedistalli di potere e di ricchezza e guidarci verso la bellezza delle beatitudini.
Nel vangelo di questa domenica, Nicodemo, con le sue paure e le sue domande, cerca Gesù e lo fa di notte. Ma Gesù non giudica, non condanna, rispetta anche la paura di Nicodemo, paziente con le sue lentezze, e lo rende il più coraggioso dei discepoli, colui che un giorno si presenterà davanti a Pilato a chiedere il corpo. Un giorno diventerà capace di operare la verità, perché prima ha sentito amata la sua verità di paure e di ombre.
Anche la tua paura è amata, Giò. Coraggio! La tua vulnerabilità è tesoro! La forza di Dio viene richiamata in mezzo agli uomini ogni qualvolta le persone scelgono di amarsi. Amare significa esporsi alle ferite, al dolore, al tradimento. Amare significa essere vulnerabili. E la vulnerabilità è luce. Fidati!
La fede, cui Gesù fa esplicito riferimento spesso nelle sue parole, è parente stretta dell’amore, ovvero è un altro modo di dire amore: “Va’, il tuo amore ti ha salvato”. È questo amore fiducioso che libera, è l’amore senza misura che salva, è l’amore che crede nell’altro più che in se stesso, che pone un segno di vita. È l’amore che vince ogni paura. È l’amore che lascia accadere la vita dove non ci aspetteremmo. È l’amore quella forza che agli occhi di chi non comprende ed è abituato ai calcoli, al corretto, al giusto, appare come debolezza. È l’amore che mette al primo posto la dignità dell’altro e vi trova riconosciuta anche la propria. È l’amore che ascolta l’altro, è l’amore che si sporca le mani, è l’amore che cura, sana, guarisce.
Non qualsiasi amore, Giò, solo quello che è passato dalla morte alla vita, solo quello che ha conosciuto il buio e il disorientamento, lo smarrimento e la rottura, la prova, il fallimento, e ha rimesso insieme i pezzi come il respiro fa rialzare un corpo. Le nostre ferite hanno bisogno solo di questo amore. Ed è questo amore che ci salva e fa vivere. La salvezza non è cosa nostra. È dono gratuito, esclusivo di Dio. Ma le opere buone sono una faccenda che ci riguarda. Non tiriamoci indietro.
Le opere buone sono un linguaggio che tutti comprendono. Se poi ci affrettiamo anche a cancellare le impronte digitali dalle “nostre” opere buone, tanto meglio. Importante che gli uomini le vedano e sappiano così che il Padre non li ha dimenticati ( Mt 5,16).
Trattandosi di bene il colpevole può anche nascondersi. Purché non ci siano dubbi sul mandante. Buon cammino, Giò. A presto.
+ don Mimmo, tuo vescovo