Intervento del Vescovo all’Assemblea diocesana d’inizio anno pastorale 2019-2020

11-10-2019

«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo nasce e rinasce la gioia. (…) Il grande rischio del mondo attuale (…) è una tristezza individualista. (…) Quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. (…) Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui» (Papa Francesco, Evangelii gaudium, 1-3).

Con queste parole di Papa Francesco vorrei consegnare a tutti voi il senso del nostro ritrovarci insieme qui stasera.

L’anno appena trascorso ci ha donato di poterci raccontare in qualche modo le fatiche e le speranze che abitano la nostra terra, la nostra Chiesa. Spero che cresca sempre di più lo spazio di questo racconto, della condivisione, della fiducia reciproca, del desiderio di incontrarsi e lasciarsi incontrare, della passione per le piccole cose. Abbiamo riconosciuto insieme i segni di un cambiamento in atto nella Chiesa, cambiamento che non può avvenire e non avviene fuori di noi o al di sopra delle nostre teste. Sono consapevole che qualcuno è ancora scettico o perplesso ma in forza della gratuità di questo cammino che viene da Dio è già sulla via, è già destinatario della cura di qualcuno, di un compagno di strada.

È proprio per questo, a partire da questa cura gratuita, possibile e vicina a noi, dopo aver ascoltato e fatte mie le proposte dei Tavoli della condivisione e del Consiglio pastorale diocesano, che stasera provo a ripartire dalla cura della relazione come fondamento di tutto, del nostro cammino, dell’ascolto, del discernimento, dell’impegno che si traduce in servizio.

Stasera desidero consegnare a ciascuno di voi la sfida di “abitare lo spazio della relazione”.

Cito dalla mia Lettera pastorale:

«La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes, al numero 16 ricorda, in maniera molto chiara, che la coscienza dell’uomo è come un “sacrario”, luogo in cui, dall’interno, Dio abita la storia, luogo in cui l’uomo è solo con Lui. Nella fedeltà alla propria coscienza, i credenti si uniscono agli altri uomini nella ricerca di ciò che promuove l’umano.

[“Chi desidera vivere con dignità e pienezza non ha altra strada che riconoscere l’altro e cercare il suo bene” (Evangelii gaudium, 9)].

L’ascolto della Parola e la formazione della coscienza sono percorsi che devono starci a cuore e che dobbiamo cercare di fare insieme. Questa responsabilità va assunta personalmente per diventare formazione reciproca e occasione per individuare cammini condivisi, nella vita ecclesiale, in politica, nel sociale. “Con fatica ho imparato che è necessario percorrere una strada nella quale scopri che per amare è necessario schiudersi agli altri (…). È importante conoscere, scambiare, contaminarsi e donare” (M. Battaglia, Vecchie ciabatte… calzari di angeli, 19). Di questo dobbiamo farci responsabili.

La responsabilità spesso è offuscata da quel retaggio culturale, fondamentalmente legalistico, che fa del dono di sé e del servizio un sacrificio. Si tratta invece di ricordare che ci è possibile rispondere e operare perché il Signore opera nella cura della nostra onestà e in quella di tutti gli uomini, nel nostro desiderio di bene e in quello di chi non lo conosce ancora. Non è questione di sacrificare se stessi, di contare sulle proprie forze o cercare finte garanzie, ma di lasciarsi incontrare da Lui e seguirLo. La fede è trasmissione di un dono, gioia dell’annuncio, responsabilità di mediazione. Altri ci hanno comunicato il senso e la grazia di un incontro che è diventato ragione del nostro vivere e operare. Avere cura di questa responsabilità significa essere disposti a crescere nell’amore e nella vicinanza ai fratelli. Le storie e i momenti non sono tutti uguali, ma possiamo avere attenzione alla continuità dei segni di risurrezione» (fine cit.).

Mettere al centro dell’azione pastorale il principio della “relazione” come criterio operativo e regolativo vuol dire credere e impegnarsi in una cura più vera e più fondata della “formazione come promozione dell’umano”, dell’accoglienza reciproca, del rispetto reciproco. La pastorale ha bisogno di ripartire da noi, dal noi! Ha bisogno di ripartire da questo spazio della relazione, tra me e te c’è un noi che ci ha già accolti, che è già storia, che ha già segnato in tanti modi la nostra storia personale. È necessario ripensare alle nostre esperienze personali come ad una storia di cammino condiviso.

Abitare lo spazio della relazione vuol dire abbandonare ciò che pretende di etichettare se stessi e gli altri, gli ambienti in cui viviamo, vuol dire accogliere la sfida di lasciarsi smascherare, lasciarsi voler bene, lasciarsi accompagnare. In una reciprocità non scontata e mai imposta, solo attesa, desiderata. Abitare lo spazio della relazione vuol dire andare incontro, uscire e attendere: non possedere l’altro ma desiderare l’altro. Attenderlo.

Molti spazi credo si siano creati durante l’anno appena trascorso, spazi di ascolto, di incontro, di attese, di interrogativi. Vi invito perciò a coglierne il valore! Vi invito a lasciar maturare l’ascolto, l’impegno, il servizio.

Lo spazio della relazione può diventare spazio di discernimento, di preghiera, di formazione.

Ci vuole coraggio, umiltà, consapevolezza della propria fragilità, per desiderare di vedere l’altro, incontrarlo; ci vuole il coraggio di abitare le domande. Domande di senso, domande che toccano la vita, domande che aprono ulteriori spazi di confronto. Siamo ben forniti di risposte, di idee da mettere in atto, di strategie, di metodologie, ma non abitiamo le domande. E Dio, forse, è nelle domande, non nelle risposte!

Il cammino con l’altro è sempre anche cammino con se stessi, e il cammino con se stessi è un viaggio scomodo, doloroso a volte, perché chiede di attraversare gli spazi della nostra vulnerabilità. È la condizione che sperimenta Mosè nel suo fallimento, nella sua rassegnazione, nel suo isolamento. Proprio in quello spazio che si apre nella sua esistenza prende dimora Dio con segni inediti della sua presenza. Un roveto arde ma non si consuma, una voce che accoglie e nello stesso tempo chiede di essere accolta, vissuta (eseguita): Togliti i sandali!

L’esperienza di fallimento, di nudità, da parte di Mosè, è visitata da Dio, diventa spazio di relazione, realtà di relazione, e spazio di relazioni possibili: togliti i sandali! L’umiltà e la nudità dell’anima, consapevole della sua povertà creaturale. Togliti i sandali! Il Signore ricorda che ciò di cui bisogna veramente svestirsi sono i sandali. Sandali con cui si calpesta la terra, ci si difende dalle insidie della strada. I sandali possono diventare simbolo di difesa dall’altro, di possesso della terra, di potere sui poveri.

Dio vede Mosè, ha compassione di Mosè mentre il grido del suo popolo è giunto fino a Lui, e lo chiama! È questa esperienza la novità che vive Mosè, davanti a cui non fugge ma si meraviglia. Siamo capaci di questa meraviglia, di questo stupore? Capaci di pensare che ci può essere ancora qualcosa di nuovo nella nostra vita?

Togliersi i calzari è allora simbolo di nudità e di fiducioso abbandono al Dio che parla e si rivela. Parla e si rivela ancora oggi. Mosè deve togliersi i sandali per entrare libero nella relazione.

C’è un roveto ardente in ogni essere umano, un roveto che arde e non si consuma, un roveto davanti al quale occorre davvero denudarsi i piedi, rinunciare ad ogni forma di dominio e di supremazia.

Siamo chiamati a entrare nella Terra Santa della relazione a piedi nudi.

Occorre nudità di piedi e di anima, delicatezza e massimo rispetto per ascoltare l’altro nella sua diversità e unicità. Per ascoltare il grido sommerso del divino nel male del mondo. Occorre fermarsi a piedi nudi sulla soglia che apre al mondo interiore dell’altro; occorre camminare a piedi nudi lungo la via dell’accompagnamento spirituale, nell’azione pastorale, nell’opera educativa, nel volontariato.

Formazione e cura hanno la loro autentica espressione nella sfida di una responsabilità condivisa che chiama l’altro a farsi responsabile. Mi faccio responsabile perché mi interessa, ci credo, ci tengo, i care. Sono io il custode di mio fratello? Sì, lo sei! È un atto di fede! E può diventare, oggi, per ciascuno, per te e per l’altro, un atto di speranza! Perciò atto di carità!

Abbiamo bisogno di credere insieme e di sperare in quello che stiamo credendo. Ecco perché diventa importante scegliere con libertà e credere con responsabilità.

Affido questo passaggio a ciascuno di voi, per la vostra vita, per il cammino pastorale, per le scelte personali, per il coraggio di osare! È solo in questo modo che potremo ritrovare insieme la bellezza della libertà e il gusto nuovo di una responsabilità come disponibilità a rimettere in gioco i propri talenti.

L’altro è compagno di strada. Ci si educa solo insieme. Non c’è formazione che nella relazione con l’altro accolta e compresa come via di realizzazione della propria vita. Tu sei un dono, tu mi consegni il senso della mia vocazione. Tu non sei un mezzo per me, tu sei fine!

La relazione è in sé come un percorso che ti porta dalla periferia al centro, da quello che sembri a quello che sei, dall’immagine alla tua autenticità; ma è anche il percorso che da questo movimento che giunge al centro, al cuore, si volge al cuore e al volto degli altri; è ancora il percorso che, dall’incontro con l’altro conduce alla scoperta del desiderio di Dio. L’insostituibilità dei volti è il segreto del mistero di Dio. Un Dio che ama nella relazione, che abita la tua ricerca. Che ti sostiene nel tuo desiderio di amare e di sentirti amato.

La speranza non la si costruisce se non insieme, non la si conosce dal di dentro se non la si è incontrata nel volto della disperazione. Sono i poveri a indicarci la strada del domani. Sono gli ultimi, quelli che sono rimasti indietro, gli esclusi, che ci consegnano tra le mani il valore e la speranza della nostra vocazione missionaria!

Ho nel cuore, e non potrebbe essere diversamente, un pensiero particolare per i giovani. Il vostro grido sale a Dio: il lavoro che manca, la necessità di dovere spesso lasciare la nostra terra, la precarietà che vi accompagna, l’incapacità di credere in un amore che duri per sempre.

La speranza rinasca in voi e nelle vostre relazioni, perché voi possiate annunciare oggi che è possibile non essere schiavi di logiche di peccato, di sopruso, della sete di profitto, della smania del potere, che Dio non si stanca di scendere, di vincere le tenebre della paura e della rassegnazione, di donare la sua comunione agli uomini. Chiedo al Signore che il suo annuncio di liberazione conquisti la fame e la sete di senso che è in voi, perché possiate rispondere a Lui con la stessa gratuità con cui vi guarda e vi ama.

Prima di ogni cosa, valore, ideale, ci sono i nomi, i volti, le storie. Non ci sono i poveri generici, ma coloro che incontro, non i malati, ma i volti conosciuti del dolore, non i problemi sociali, ma la storia concreta di chi ha incrociato il mio cammino. La gratuità è tutta in questo riconoscere il volto dell’altro, guardarne gli occhi, fermarsi davanti a questo sguardo. La gratuità non è non aspettarsi di essere ricambiati ma è il consegnarsi senza riserve a quello sguardo. Pronti a rispondere della speranza e non pronti a difendersi, non pronti ad affermare se stessi. Riconoscere l’altro nella sua dignità conduce a riconoscere che ciascuno ha bisogno dell’altro. La gratuità, evocando il bisogno dell’altro, riempie il mondo, lo dilata, perché apre alla ricerca condivisa del bene. E’ per questo che la gratuità salva dalla solitudine. Chiediamo a Dio la grazia del desiderio di cercare il bene insieme, il bene dell’altro e di scoprire in esso anche il mio bisogno rivestito di speranza.

Oggi, ancora una volta mi ritrovo cambiato, convertito, dai volti che ho accarezzato, dalle mani che ho stretto, dal dolore che ho incontrato, dalle morti che ho pianto. In tutti questi momenti ho sempre cercato un volto e mi sono lasciato raggiungere da un volto che è diventato preghiera: Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto.

Se fossimo capaci di dire e pregare: il tuo volto, fratello, io cerco! Non nascondermi il tuo volto! Riconciliamoci con i volti. Con il volto di ogni fratello, scrigno di tenerezze e di paure, di solitudini e di speranze. Ci riconcilieremo così, con il volto di Dio, unica terra promessa dove fiorisce la pace.

Se oggi si stanno smarrendo certi significati, è solo perché si vanno atrofizzando le relazioni. Il senso delle cose, della vita, della morte, del dolore, della gioia, del lavoro, acquistano spessore solo se si vive in un contesto di cura delle relazioni. Coltiviamo le relazioni, il gusto della parola e dello sguardo. Sogno perciò una nuova speranza che sia spazio per ciascuno e per tutti. Quella stessa speranza che serve ritrovare ogni volta per il senso del nostro servizio.

Non dovremmo mai aver paura di puntare in alto! Noi sappiamo che l’amore c’è, che la giustizia c’è, che la solidarietà c’è. Così come siamo certi che il Regno c’è. Beato chi ha occhi penetranti per saperlo riconoscere anche in questo mondo complicato. Beato chi ha orecchi aperti per intendere quella chiamata che si fa inquietudine. Scopre che anche quando il viaggio è faticoso ci sono oasi di riposo; quando è deserto ci sono pozzi di acqua fresca data in dono. Vedere e riconoscere cose nuove sarà segno di una fede e di un amore che non vogliono arrendersi.

 

Uno per uno per uno fa sempre uno (da uno scritto di don Tonino Bello).

«Ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente. Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c’è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali. Altro che “relazioni”. L’acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d’incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio.

L’isola sperduta, più dell’arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l’altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente. Coraggio. Irrompe la Pasqua! È il giorno dei macigni che rotolano via dall’imboccatura dei sepolcri. È l’intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull’erba. È l’incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E’ il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. È la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. È la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all’improvviso dilaga la speranza. Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria».

 

 

Saluto conclusivo! …perché l’11 ottobre!

Ecco, ogni giorno, giunti a sera, dovremmo chiederci se ciò che abbiamo fatto ha un futuro. Ha un futuro ciò che conforta la speranza, ciò che fa trasalire il cuore, ciò che avvicina a Dio, alla verità, alla giustizia, ciò che ci rende interiormente liberi e trasparenti, ciò che apre gli occhi e il cuore, ciò che dilata la visione. Diamo fiato a ciò che ha un futuro, con la consapevolezza che un volto lieto, fiducioso apre al cambiamento.  Questo era il messaggio più puro e trasparente del Concilio. Il sogno di una Chiesa della fiducia. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Il discorso della luna la sera dell’apertura del Concilio è rimasto impigliato nell’aria, tutti lo ricordiamo, ma quelle parole della notte non gli erano scivolate spontanee solo per un’emozione, erano il frutto di una convinzione profonda, che il Papa aveva ricordata, al mattino dello stesso giorno, nel suo discorso.. Si trattava del discorso che inaugurava il Concilio, intitolato “Gaudet Mater Ecclesia” – “Gioisce la Madre Chiesa”, così iniziava. Come a dire si inizia così. Forse il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello “della luna”, ma ne era la premessa, l’impostazione di fondo. Parole più che mai attuali di cui avremmo un grande bisogno.

Erano da un lato un invito alla fiducia e dall’altro un “no” forte, senza risparmi, ai profeti di sventura, quelli di allora, come di ogni tempo. Disse: “Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori… A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano il peggio quasi incombesse la fine del mondo”. Di questo sguardo, che ha l’ottimismo dei veri credenti, voi tutti sapete quanto ce ne sia bisogno anche oggi quando la tentazione del pessimismo prende parecchi di noi.

Che cosa può propiziare il cambiamento atteso, quale la condizione primaria, che cosa ci fa alzare il capo se non una parola in cui vibri la fiducia, quella di Dio e quella degli uomini. Forse questa è l’unica cosa che vi sto dicendo da quando ho iniziato a parlarvi. Se ci si lascia inghiottire dai nostri pessimismi, si muore.  «Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera… Osservatela in alto, a guardare questo spettacolo… Noi chiudiamo una grande giornata di pace… Sì, di pace: ‘Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà’. Se domandassi, se potessi chiedere ora a ciascuno: voi da che parte venite? I figli di Roma, che sono qui specialmente rappresentati, risponderebbero: ah, noi siamo i figli più vicini, e voi siete il nostro vescovo. Ebbene, figlioli di Roma, voi sentite veramente di rappresentare la ‘Roma caput mundi’, la capitale del mondo, così come per disegno della Provvidenza è stata chiamata ad essere attraverso i secoli.

La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore… Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così; guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà… Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza… E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino. Addio, figlioli. Alla benedizione aggiungo l’augurio della buona notte» (Giovanni XXIII, sera dell’11 ottobre 1962, dopo l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II).

† don Mimmo, vostro vescovo