Momento di preghiera e di adorazione con i sacerdoti – 28 aprile 2020

Carissimi sacerdoti,

la misericordia di Dio ci raggiunge in molti modi ma in particolare oggi nella sua Parola e nel fatto di poterla celebrare insieme, anche se in questo modo un po’ anomalo. Abbiamo letto solo il passo dal Vangelo di Giovanni. Affido alla vostra ripresa nella preghiera personale il passo dagli Atti degli Apostoli (7,51-8,1a).
Dall’esperienza dell’amore di Dio incontrato in Gesù Cristo si apre la possibilità di comprendere nuovamente la nostra storia, questo nostro mondo, noi stessi. Incontrare in Gesù il volto del Padre, riconoscere in lui il desiderio di comunione che si compie nel dono del Figlio, ci chiama oggi ad accogliere in noi, ancora, il dono della salvezza. Questa è l’opera di
Dio: credere nel Figlio che lui ha mandato, nella comunione possibile. L’operare di Dio in noi, in forza del suo Spirito, è questo dono che si rinnova ogni giorno, ogni momento in cui il nostro orecchio è attento. «Ascoltare le Sacre Scritture per praticare la misericordia: questa è una grande sfida posta dinanzi alla nostra vita. La Parola di Dio è in grado di aprire i nostri occhi per permetterci di uscire dall’individualismo che conduce all’asfissia e alla sterilità mentre spalanca la strada della condivisione e della solidarietà» (Aperuit illis, 13).
Il Vangelo che abbiamo ascoltato è parte di Gv 6, il discorso a Cafarnao sul pane, di cui ricordiamo il parlare “duro” di Gesù, così lo percepiscono i discepoli, gli apostoli, la folla. Eppure è lo stesso Gesù che ha sentito compassione per la folla che lo seguiva e che aveva fame, ed è lo stesso Gesù che ha accolto i pochi pani e pesci che aveva un ragazzo.
La folla ha visto il segno della moltiplicazione dei pani e ora lo cerca. Non è piccola cosa questa ricerca, e Gesù ne ha cura, come sempre ha cura del capire dei suoi discepoli, della loro formazione, come della nostra. Aiuta la folla a interrogarsi, a rendersi conto che la ricerca di Lui è motivata non da quello che hanno visto, dal segno, ma dal fatto che hanno mangiato e si sono saziati. Aiuta la folla, i discepoli, il gruppetto degli apostoli, a fare sincerità, verità nel loro cuore, a verificare le loro motivazioni. È molto forte, diretta, questa parola di Gesù, infatti li provoca e diventa domanda in loro che lo ascoltano.
A Gesù sta a cuore il loro capire, la loro interiorità, la loro vita, non solo il loro bisogno immediato. Ed è questo tuo guardarci così, Signore, che ci ha salvato e continua a salvarci! “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà”. Procuratevi il cibo vero, cercate gratuitamente ciò che vi fa vivere davvero, che vi nutre nelle profondità più nascoste, che vi libera e vi apre a dare non qualcosa, semplicemente, ma voi stessi! Una reciprocità profonda tra il dare di Dio e il dare del discepolo, tra il desiderio di Dio e il desiderio del discepolo. Procuratevi, prendete, chiedete, senza denaro, ciò che può darvi la vita in eterno. Ritorna in mente il dialogo con la Samaritana (Gv 4,1-42): “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti chiede di dargli da bere, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva” (cf v. 10). Il Signore lo dice anche a noi in questo tempo condizionato da circostanze che mai avremmo potuto immaginare così, ma che certamente ciascuno nella propria riflessione e preghiera sta cercando di accogliere e vivere al meglio per capire con il Signore, condividere il suo sguardo, dilatare gli orizzonti, ampliare la prospettiva, attendere il futuro.
Quello che stiamo vivendo va analizzato ma lasciandoci coinvolgere in prima persona, non difendendoci dietro le nostre paure, ma condividendo e discutendo sui nostri criteri di relazione con
l’altro, con la terra, con i mezzi che abbiamo per vivere, con le risorse che sono a nostra disposizione. Non possiamo fermarci alla valutazione dei rischi, delle curve dei contagi, dei criteri e delle decisioni del Governo. Ci è chiesto di sostenere, corresponsabilmente, le decisioni per la tutela della vita delle persone e soprattutto dei più deboli, ma abbiamo anche il compito di interrogarci sulla vita concreta delle nostre comunità, sui momenti bui, sulle difficoltà antiche e quelle nuove, sulle nuove forme e
soglie di povertà. Abbiamo bisogno di convertire il nostro sguardo al vero bisogno della gente, quel bisogno per cui Gesù ha scelto di vivere nel modo in cui ha vissuto la sua missione. Siamo richiamati a questo sguardo essenziale sulla fede, sulla vita delle persone, su quanto è tra le nostre mani strumento per vivere. Credo che di questo dobbiamo ringraziare il Signore e credo che, se vissuto bene, in comunione con Lui e nel dialogo sincero tra fratelli, questo momento possa diventare occasione di profondo e vero rinnovamento del cuore e dell’agire. È l’opera che ci è chiesta, non come cosa da fare ma come finalità da vivere. E non dopo, ma ora. Il Signore liberi il nostro sguardo, purifichi i nostri occhi, perché davvero possiamo discernere quanto nel servizio ai fratelli è celebrazione del suo amore, è annuncio del suo nome che salva. Lasciamoci convertire dalla sua presenza perché la trasformazione interiore diventi linfa di cambiamenti concreti nel nostro andare incontro all’altro, nei criteri che condividiamo, nelle letture, nei discorsi, nelle piccole e grandi scelte, nelle strutture in cui operiamo.
Che cosa dobbiamo fare, in quanto dipende da noi, perché Dio ci dia questo pane? “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”. L’accento è ancora sul fare, sulle opere, sull’efficacia del proprio risultato. Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Che crediate… l’opera di Dio è la fede. Una fede viva, che crede in Lui, che cerca il fratello, che dona volto nuovo alla storia. Gesù stesso aveva detto alla Samaritana: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”. Il Signore non sovverte improvvisamente le cose, non resta neppure inerte in un finto salvaguardare ciò che maschera la nostra libertà e la incatena. Gesù rivela il suo essere Messia nella ricerca liberata, sincera, affidata, della donna, che si è lasciata condurre, che ha affrontato le sue resistenze, che ha riconosciuto in Lui il senso della
sua parola, la verità della sua vita.

Molti oggi aspettano il tempo della speranza, il tempo dell’uscita non solo dalle case, ma dai problemi, dalle ansie e dai dubbi sul domani. Il Signore dice anche a noi: date voi stessi da mangiare! Trovate il modo di farvi prossimi come io mi sono fatto prossimo a voi! “Signore, dacci sempre questo pane”: non è solo l’espressione di un momento. Questi hanno
davvero visto in Gesù il segno di cui egli sta parlando. Lo chiediamo anche noi: Signore, dacci sempre questo pane. Ci sono segni, sotto gli occhi di tutti, di una ricerca falsa di Dio, di un Dio che metta toppe, che intervenga a cambiare le cose, che risponda ai bisogni, che si affermi con la sua potenza. Ma Dio non impone la sua signoria, Dio consola, rimette in piedi, benedice, conduce. È Dio in cammino, sempre, e così sono coloro che lo seguono, in cammino. Non è estranea alla vita e alla preghiera di Gesù la dimensione della tentazione, lo sappiamo dai
Sinottici (cf Lc 4,1-13 e Mt 4,11; Mc 1,12-13). La preghiera in solitudine con il Padre, il deserto, è il tempo della verifica, del decidere come egli vivrà la sua missione. È il momento della verità profonda del capire i criteri, del discernere i mezzi, dell’attuare finalità. Egli potrebbe trasformare le pietre, il suo bisogno, la sua fame, il suo digiuno, in vantaggio per lui, in pane! Lui è Dio, può farlo. Se deve mostrarsi come Messia, allora dovrà affermare se stesso: è l’unica via possibile in questo mondo per ottenere potere, per imporsi sugli altri, per non apparire deboli. Ricchezze, garanzie, privilegi: questa è la signoria che gli è proposta, queste sono le mentalità dominanti, l’unico modo per poter fare, ottenere, qualcosa. Ma egli ha scelto noi. Ci ricorda che il mistero del pane è il solo corpo donato, la sua esistenza vissuta e consegnata perché altri possano vivere, capire, donarsi a loro volta.
Il miracolo del pane, che è Gesù, trova significato nel reciproco lavarsi i piedi, nel servire la fede, l’amore, la speranza del fratello. Gesù sceglie la condizione degli uomini ed è così che manifesta la prossimità di Dio. Assume l’umanità fino in fondo, esclusa ogni logica di privilegio di se stesso, di peccato. La regalità di Dio è nel suo vivere e morire povero, come tutti i poveri, gli umili, i giusti, della storia. La folla cercherà di andare a prenderlo per farlo re: ma il suo vero potere si manifesterà fino alla fine nel poter servire tutti. C.M. Martini, parlando delle beatitudini dalla parte del ministero ordinato, afferma: «A partire dalla scoperta che Dio mi fa fare di essere contento malgrado le situazioni di umiliazione, di non completa libertà di azione ecc., di essere lui il mio re, (…) la beatitudine entra nel ministero e diviene irradiazione ministeriale, evangelica. (…) Non la predica, non le grandi esortazioni, ma l’irradiazione della perfetta letizia, delle Beatitudini».

Tra le tante parole di questo tempo, mi tornano alla mente quelle di alcuni medici e infermieri, ma anche di preti, che sono stati presenti in prima linea accanto ai colpiti dal virus, e che hanno contestato il sentirsi chiamare eroi. “Non chiamateci eroi, stiamo facendo il nostro dovere, come possiamo, stiamo rispondendo al bisogno dell’altro”, perché il bisogno dell’altro è anche il nostro, cercare di mettere in contatto i malati con le loro famiglie è cura della vita: per alcuni quel momento è stato l’ultimo saluto, l’olio della consolazione, prima di tornare al Padre. Dio consola, non si impone. È la parola “laica” che oggi apre i nostri occhi per riconoscere il Signore presente, il suo volto di viandante. Parole che sono diventate luce di speranza nell’umanità redenta, rinnovata dalla grazia che sempre opera. Cari sacerdoti, «e noi, suoi discepoli, non possiamo far finta di niente. Soltanto ascoltando le più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori. L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di
pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi» (Papa Francesco).
È esigente con noi oggi: se lo avvertiamo così vuol dire che egli si sta consegnando a noi come pane di vita perché possiamo dare, esserci, andare, nonostante le nostre mille paure. “Dacci sempre questo pane” diventa “resta con noi Signore”: perché è questa la vita eterna, poter gustare il tuo operare in mezzo noi! Cari sacerdoti, il Signore non solo si fa vero nutrimento della nostra vita ma chiede di diventare noi stessi nutrimento per la vita di altri. Quale amore più grande del dare la nostra vita per i fratelli? È questo il Signore che ci ha attratti a sé, che ci ha innamorati di lui. Ed è questo il Signore che possiamo adorare in ginocchio, perché lui si è inginocchiato su di noi, su ogni povero della storia, su ogni giusto della storia, su ogni mendicante di coraggio, di fede, di luce. L’essere credenti non è un bigliettino da visita, non è un privilegio come lo sarebbe essere amici di uno che conta, che è stimato da tutti, non è neppure un’aggiunta alla nostra vita, non è un premio, non è un sentirsi appagati nella propria fame affettiva o spirituale, ma è cercare il Signore mentre lui ci viene incontro, è avere sete di lui, è avere cura della relazione con lui, accogliendo la relazione con l’altro; è attenzione ai particolari, al perché e al come di gesti e parole; è questione di senso.
Il Messia arriva dal basso, il Risorto si fa riconoscere nella relazione, il Signore salva servendo la nostra interiorità. «Il tempo presente è tempo di semina, e la crescita del seme è assicurata dal Signore. Ogni cristiano, allora, sa bene di dover fare tutto quello che può, ma che il risultato finale dipende da Dio: questa consapevolezza lo sostiene nella fatica di ogni giorno, specialmente nelle situazioni difficili. A tale proposito scrive Sant’ Ignazio di Loyola: “Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio”» (Benedetto XVI, Angelus 17 giugno 2012). Aiutiamoci reciprocamente ad accogliere il cibo che non perisce, il pane di vita nuova, seme di rinascita, perché possiamo a nostra volta aiutare la nostra gente ad accogliere quello che muove interiormente alla conversione, alla speranza, alla pace, al perdono, al servizio. Aiutiamo la nostra gente a conoscere il volto di Dio. È questa l’opera di Dio in noi.

Mi chiedo, insieme a voi, cosa significa in questo tempo “procuratevi il cibo che non perisce”?

• Il rapporto con Dio come fondamento

La Parola di Dio corregge, abbatta ed esalta, rinnova, fa vivere la nostra interiorità nella ricerca vera
e sincera di vie di fraternità. Anche quello che sta accadendo oggi non può essere affidato ai soli
ragionamenti che giustificano punti di vista, a volte rivendicazioni. Come non basta la denuncia,
sacrosanta, di criteri immorali che hanno portato a deturpare la terra, le relazioni, la convivenza umana.
Siamo chiamati in causa personalmente, è interrogata la nostra capacità di giudicare il bene per decidere
responsabilmente. Non c’è solo il male da evitare ma il bene da fare. La Parola di Dio ci diventa
incomprensibile, dura, se non chiediamo al Signore che ce la spieghi, se non gli affidiamo la nostra
esistenza e quella degli altri, se non gli chiediamo di fermarsi con noi, per non rischiare una fede
disincarnata. I discepoli non hanno ricevuto ricette per il futuro. Stefano, di cui oggi la Parola ripropone
il martirio, non imita semplicemente Gesù ma vive di quello che ha capito, conosciuto, credendo in lui,
incontrandolo risorto. Lo contempla alla destra di Dio, mentre le calunnie lo colpiscono più delle
pietre, lo vede quale testimone di un amore che continua, in piedi, che resiste alle logiche mondane,
che rivela la vita eterna. Gesù non è uno “sfigato”: perdonate l’espressione, ma abbiamo bisogno di
verificare quale immagine di Dio vive in noi. Il suo morire è stato compiere l’opera del Padre. “Non
bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25-26).
Ci è chiesto di dare ragione oggi della speranza che è in noi!
Sono vere le parole del profeta Osea (2,16): “La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al
suo cuore”. Le tante Eucaristie celebrate senza concorso di popolo in questo tempo di pandemia, non
sono state forse questo per noi? Ci ha attratti a sé con domande, bisogni, necessità, che ora ci chiedono
di rientrare in noi stessi: è il suo Spirito che ci spinge nel deserto. Abbiamo mani vuote ma ce le colma
il Signore di tutti i segni del suo corpo donato, del suo sangue versato. Non sono certamente le notizie
sul coronavirus che hanno intasato i nostri cellulari, la televisione e anche le nostre teste. Non sono
nemmeno le nostre fobie che ci hanno bloccato e chiusi in casa. Sono segni i molti che pur avendo
paura non sono venuti meno a quanto era loro chiesto. In un tempo così delicato, lo sappiamo bene,
fa la differenza il discernimento che contempla possibilità, condizionamenti, mezzi. Fissarsi sulle notizie
non aiuta, aiuta invece capire in concreto che cosa a ciascuno è possibile fare. Forse l’Eucaristia vissuta
in solitudine diventerà per noi sacerdoti il segno di un’urgenza: sostituire i vecchi recipienti con otri
nuovi che possano contenere il vino del vero rinnovamento ecclesiale, spirituale, morale.

• Il rapporto con i confratelli come testimonianza
Sono parole dure, vere, eppure colme di misericordia, quelle di Gesù e anche quelle di Stefano,
aperte alla vita con l’altro, al futuro possibile, alla comunione che non finisce. Stefano, uno dei sette
diaconi scelti per il servizio alle mense perché gli apostoli potessero dedicarsi all’annuncio della Parola,
del Vivente, è proprio il primo a testimoniare con la vita e con la morte la parola di Gesù, la salvezza,
il perdono, affidando a Lui il suo spirito. Ci dice molto tutto questo della prima comunità cristiana.
Anche nel cercare soluzioni operative, l’uno sostiene la fede dell’altro. Ci dice molto della comunione
vissuta, dei criteri condivisi, della parola che genera coraggio di vivere, di credere. È la comunione con
il Signore, sperimentata nella comunione con i fratelli, che rende forte Stefano, che gli infonde il
coraggio dell’annuncio, la fiducia in Dio fino a dare la vita, come Gesù. Il miracolo del pane si ripete:
è il Padre che vi dà il pane dal cielo, quello vero.
La cura del fratello non è solo bisogno, è dono! È dono che viene da Dio, dono di comunione. Ma
il dono non arriva a caso, anch’esso è generato nella cura reciproca, dipende dunque anche da noi.
Abbiamo bisogno di chiederlo. Abbiamo bisogno di interrogarci sulla cura che abbiamo avuto o non
avuto, o che abbiamo avuto forse troppo a modo nostro, verso i nostri confratelli, in questo tempo.
Molti di noi hanno vissuto momenti di sconforto, di solitudine, di fatica nell’andare concretamente
incontro a chi aveva bisogno, non solo per la paura legata al virus ma anche per i disagi connessi ai
pochi mezzi e possibilità a disposizione. Molti non si sono fermati in questo tempo, sono stati presenti
e operanti accompagnando il servizio di altri. Abbiamo almeno contattato chi sapevamo essere più
debole in questo tempo?

• Il rapporto con la comunità parrocchiale per un vero rinnovamento
Date voi stessi da mangiare. Abbiamo contemplato Gesù morto in croce e vivente. È questo Gesù
che mostra il Padre. È lui la Parola del Padre che attrae a sé. Non vi sono altre vie. Questo tempo ci
sta donando un nuovo sguardo sull’essenziale. È Gesù che attrae a sé. Gesù sulla croce che dona tutto
se stesso, Gesù vivente, con i segni dei chiodi e delle spine, è il Signore. Sono venuto per annunciare
ai poveri il lieto messaggio della liberazione… Su quel crocifisso prendono vita i volti di tanti crocifissi
della storia, dei nostri poveri. Su quel volto siamo rimessi in piedi anche noi che non abbiamo fatto
tutto quello che potevamo fare, che abbiamo taciuto quando era ora di parlare, noi che abbiamo avuto
paura, che abbiamo anche tradito quando abbiamo cercato noi stessi e le nostre sicurezze. Noi,
ciascuno di noi, io. Signore, dacci sempre il pane del perdono, dell’affidamento a te, della consegna
all’altro. Donaci questo pane che non muore. Continua la tua opera in noi. La nostra azione diventi in
questo tempo segno di corresponsabilità con tutti gli uomini di buona volontà. Fa sentire nelle nostre
comunità i confini che si allargano, le porte delle case che si aprono, la voce del fratello che chiede
aiuto. Sei tu che salvi, non i nostri meriti, non i nostri buoni propositi che restano sempre buoni
propositi e basta, non le nostre opere. Piuttosto queste sono frutto della tua comunione donata, della
salvezza accolta, della Parola custodita. Allora, Signore, ti chiediamo di far rinascere in noi il desiderio
di accompagnare la nostra gente, come tu hai sentito il desiderio di stare con la folla. Ti chiediamo di
aiutarci a non lasciare indietro nessuno, soprattutto chi si aspetta da noi una parola, il perdono, la
speranza. Dona unità alle nostre comunità. Forse in questo tempo di pandemia più che rivendicare il
“diritto di culto”, occorre che ci interroghiamo sulla formazione delle coscienze, sull’essere credenti
dalla parte di Dio e dei più poveri. Carissimi, chiediamo al Signore e facciamo in modo che il
sacramento della Parola, il pane di vita, possa entrare realmente nelle case della nostra gente perché
riviva la comunità rinnovata nel suo fondamento. Non fate mancare lo sguardo misericordioso di Dio
che è capace di sciogliere i nodi della sofferenza e della morte; di cogliere le povertà, i bisogni, più
nascosti, e di riconoscere vie nuove, cammini di vita, per rimettersi in piedi. Sappiamo che ci sono
povertà che si sono accentuate, disagi nuovi. Vi chiedo di accompagnare, di ascoltare, di andare
incontro, di accogliere, di incoraggiare più con la testimonianza della vostra vita e presenza che con le
parole! Neppure un piccolo tentativo di farsi accanto andrà perduto. La fede non è questione di forme,
di norme, di precetti, è questione di umanità, di rapporti, di prossimità. La fede è testimonianza non
affermazione di verità, è parola proferita non pretesa, è incoraggiamento e comprensione non
condanna. La verità dei rapporti ha la sua ragione e la sua radice nella carità.

† don Mimmo, Vescovo