Ce le avevo ancora in testa quelle due melodie da incantesimo. Si erano diffuse nella testa. Circolavano libere dentro di me insieme all’immagine di chi le eseguiva. Una fotografia di una realtà che non vuole dare di sè solo l’immagine dell’indifferenza e dell’arrendevolezza, in ginocchio davanti ai potenti e alla sfiducia, ma che vuole resistere e continuare a provarci. Stavo ricevendo una forza immane da quel dipinto pieno di colori vivi e accesi. Ma ne avevo sempre in mente due di canzoni, “Somebody to Love” e “Living On My Own” dei Queen. Domande che mi sconfortavano e che non riuscivo a non pormi dopo quello che mi era successo, dopo i miei vari mal di cuore: Senza sosta, qualcuno sa cosa stiamo cercando? Senza sosta, qualcuno sa cosa stiamo cercando? Signore cosa mi stai facendo? In questo momento della mia vita c’è qualcuno che può amarmi? Qualcuno può trovarmi qualcuno da amare? Mi sono sentita davvero come se stessi per crollare definitivamente da un momento all’altro e piangere da sola. Vivere per conto mio e basta. Ammesso che vivere da soli sia davvero un vivere. Nessuna persona di cui fidarti veramente, nessun luogo in cui andare. Storie d’amore fallite che credevi fossero il tuo intero mondo, da cui è difficile riprendersi. Perché t’eri accorta che era tutta apparenza, che c’era ben poco di vero. Il colpo all’inizio è stato molto violento, soprattutto dopo che è morta mia sorella, un’amica per me, forse la migliore amica. Il colpo, dicevo, è stato brutale. Due volte disumano. Ma poi mi sono abituata al dolore. Non un “sei preparata, lo sai, puoi affrontarlo, puoi farcela”. Ma una vera e propria assuefazione passiva che si fermava alle domande. Non reagivo. Continuavo a prendermela con Dio e con il resto dei pianeti dell’universo conosciuto e sconosciuto. C’era una parte di me che si rifiutava di andare avanti e predominava sulla tenerezza. L’ho conosciuto il dolore, ma non lo accettavo, non me lo spiegavo.
Ho ripreso a seguire quella scia luminosa che m’aveva condotto a Bucciano. Alfonso m’ha indicato diverse scorciatoie, mentre intorno a me c’era ancora il gelo del mattino. Circondava i lati della strada non minaccioso, ma come un promemoria del telefono con tanto di suoneria. Era come se quella rigida gelata mattutina mi ricordasse che, in quei km ancora da fare, ne avevo da scongelare di parti del mio corpo: dagli occhi per cambiare lo sguardo al cuore per riscaldarlo, dalle mani per accarezzare alle gambe per camminare. Il chiarore che seguivo m’ha portato prima a Valle di Maddaloni, poi ad Airola ed infine a Luzzano. A Valle a Villa San Francesco, in una struttura per persone anziane sofferenti, per lo più paralizzate, chi totalmente a letto, chi in parte, che si chiama, ho incontrato persone anziane sofferenti per lo più paralizzate. Alcune di loro erano non vedenti che, compreso che erano state spostate nel corridoio, non vedevano l’ora di tornare in camera. Qualcuna di loro m’ha sussurrato verbi, qualcuna m’ha salutato in dialetto, qualcuna ha intonato canti, qualcuno aveva addirittura ben tre nomi, qualcun’altra mi benediceva più e più volte. Mi doveva benedire. Benedire e perdonare. Perché, fino a quel momento, ero ferma ai miei problemi. Che pochi e pesanti da digerire certamente non erano. Ma mi vergognavo molto ad aver anche solo pensato per un attimo che le complessità e le ferite della mia vita erano le uniche che contassero e le sole che avessero un senso. Non preoccupandomi minimamente di quello che provavano sulla loro pelle gli altri. Pensavo che la mia disperazione e la mia rassegnazione fossero le uniche al mondo. Non andavo oltre per capire che non era così.
Mi c’ha portato Alfonso oltre. Attraverso un vicolo m’ha fatto incontrare Fabrizio e s’è preso cura di lui. Entrambi non solo volti di Dio incontrati, ma presenza di Dio che ci benedice. Oltre sono riuscita ad andare ad Airola con i 57 volti di Villa Gioia che m’hanno spiegato in modo chiaro come si può svolgere un Consiglio Comunale con un cuore disposto e disponibile all’altro. Dal sindaco Luigi al vicesindaco Angela al consigliere Filomena. Quando la semplicità è autenticità. E, quindi, emerge la verità più pura sull’amare per ricominciare. Che richiede un cuore disposto e disponibile con “mani vuote per accogliere e mani aperte per donare”
Don Mimì, Francesco, Giuseppe, Michele, Luigi, Yuri, Rosa, Vincenza, Maria, Carmela, Maria, Anna, Antonio, Angelina, Elena, Carmela, Pio, Maria Rosaria. Storie che m’hanno toccato nel profondo. Fu allora che mi venne un altro brano dei Queen, “Too Much Love Will Kill You”, che letteralmente significa “Troppo amore ti ucciderà”. Lo sai , ma non potrai mai farne a meno. Alle volte non riuscirai neanche a capire il perché esatto daresti proprio la tua vita fino all’ultima goccia, fino all’ultima lacrima. Ma sai che per amore lo faresti. Perché non farlo significherebbe non amare. In ogni strada verso l’amore, se veramente c’è amore dietro e dentro, inevitabilmente perdiamo qualcosa. Difficile da accettare, lo so. Ma perdere, in quel caso, è l’unica e sola volta che vuol dire vincere. Vincere perché ricevi. Anche il finale di “The Show Must Go On” m’è venuto incontro: bisogna sempre trovare la volontà di andare avanti.
Continuo a seguire la scia luminosa. Non si ferma! Ed è velocissima. Non riesco quasi a starle dietro. Fortuna che non va troppo lontano questa volta. Mi trovo a Luzzano. Sento un altro suono, mistico, ispiratore. Si tratta di possenti zampogne. Accompagnano giovani e adulti presenti in chiesa, accompagnano un camper che sta facendo un giro molto più lungo e articolato del mio, accompagnano i fidanzati che si stanno incontrando prima di pronunciare il fatidico sì, accompagnano un prete che m’ha invitato a cena e che chiude il cerchio dei km percorsi in quella giornata, iniziata con lo sguardo sofferente ma carico di speranza di un altro sacerdote, incontrato di buon mattino. C’è amore puro nell’aria. Non entro a vedere questa volta. Mi basta fiutarne il profumo, sentirne la flagranza da questa distanza. Ed esserne avvolta. E questo stavolta mi basta, mi riempie. Era una ricarica che mi riforniva di fiducia. E nell’ammirare adesso il panorama sotto di me, tra un odore intenso della resina di pino e quello pungente del faggio, montagna pura che si respira, ripercorro con la mente questa cronaca verso il futuro a cui sono chiamata. Con gli occhi del presente.