Mons. Domenico Battaglia, il nuovo vescovo di Cerreto Sannita, Telese e Sant’Agata dei Goti affida a “GazzettaBenevento.it” la sua prima intervista.
Il 2 ottobre prenderà possesso della Cattedra che papa Francesco ha voluto affidargli. “Sogno di abitare una Chiesa dalle porte aperte a tutti, dove non si celebrano solo i riti ma si vive la vita delle donne e degli uomini con gioie e dolori” (di Saverio Fontana)
Papa Francesco ha chiamato alla guida della diocesi di Cerreto Sannita -Telese- S. Agata dei Goti monsignor Domenico Battaglia, sacerdote dell’arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, il cui ministero prestato fino ad oggi si può riassumere con una bellissima frase di don Tonino Bello: “A cosa servono i discorsi? Serve la vita, serve l’impegno, serve l’amore, serve anche la sofferenza offerta al Signore.”
Don Domenico Battaglia, don Mimmo, un sacerdote, come lo era il nostro mons. Felice Accrocca prima di essere nominato arcivescovo di Benevento, sarà ordinato vescovo il prossimo 3 settembre, sabato, nella Cattedrale di Catanzaro.
Monsignor Battaglia ha 53 anni. E’ nato a Satriano (Cz) il 20 gennaio del 1963.
Dal 2008 è Canonico della Cattedrale di Catanzaro e dal 1992 è il presidente del Centro Calabrese di Solidarietà (Associazione di volontariato che opera con particolare attenzione al recupero e inserimento sociale di soggetti con problematiche di dipendenza patologica).
Il nostro collega Saverio Fontana, collaboratore di un giornale online del soveratese, ci ha regalato questa bella intervista che proponiamo ai lettori di “Gazzetta” ed ai fedeli della prestigiosa ed antica Diocesi di Cerreto Sannita, Telese e Sant’Agata dei Goti.
Monsignor Battaglia “una Voce appena sussurrata l’ha chiamata e lei si è fidato”. Quale senso ha dato alla sua vita quella fiducia?
Questa voce ha dato non un senso ma IL senso. Questa voce ha riempito e continua a riempire ancora oggi la mia vita. È una chiamata che si ripete nel tempo, giorno per giorno, con nuove domande e nuovi orizzonti. Abbandonarsi a questa voce, alla voce del Cristo, affidarsi a Lui in questo incontro, perché la fede è l’incontro con il Cristo, è sentire che la mia vocazione, quindi la mia vita, è una storia d’amore. Ed è questo amore che mi riempie e mi rende felice.
Fra i numerosi incarichi che lei ha avuto durante il suo ministero sacerdotale c’è quello di presidente del Centro Calabrese di Solidarietà, dal 1992 fino ad oggi. Quale ricchezza le ha donato questa esperienza?
Ancora una volta la ricchezza dell’incontro, della relazione, dell’amicizia. Soprattutto dell’umanità, in tutte le sue più controverse e complesse sfumature. L’umanità ferita e quella che cura, l’umanità sconfitta che si rialza, l’umanità che è parola, storia, corpi, vita, che cammina per strada abbracciandosi.
E in questa umanità la rivelazione quotidiana di un Dio che è amore, perché non esiste divino che non faccia fiorire l’umano. Dio si rivela in un abbraccio. Ogni giorno incontriamo la freschezza di un Dio che non ha avuto paura della storia e ha scelto di farsi Egli stesso Storia, Pane e Fratello per ognuno di noi. E ogni giorno è un atto d’amore sconfinato ai ragazzi e alle loro famiglie, un atto di fede nella possibilità di rinascita della persona, nella possibilità di cura delle sue ferite.
Nel Centro Calabrese di Solidarietà, abbiamo voluto cercare il cielo non oltre la vita, ma dentro la terra, dove tutti viviamo, soffriamo, speriamo e dove insieme inseguiamo giustizia ed amore. Qui, qualcuno di noi, ha scelto di fermarsi, di sporcarsi le mani, di sporcarsi di terra e di cercare, anche dove è più buio, il sereno di un cielo che non spegne la speranza. Ci siamo fermati per costruire insieme percorsi di libertà, di responsabilità e di speranza. Abbiamo fatto amicizia con volti, che, senza paure, si sono avvicinati per cercare senso e giustizia. Siamo stati testimoni di luoghi, contesti, ambiti definiti troppo spesso come lontani e ai margini, in realtà vicini al cielo, a tutto ciò che è senso, spiritualità, liberazione.
Abbiamo conosciuto ed accolto oltre 3.500 persone! Una grazia di Dio!
Cambiano a volte le forme e i luoghi in cui si manifestano sofferenze ed emarginazione, ma non i volti dei ragazzi e delle ragazze, degli uomini e delle donne. Persone che hanno qualcosa in comune, al di là di ogni possibile differenza: il diritto di trovare una dignità e futuro. Non possono farlo da soli, perché quel diritto per poter essere esercitato deve essere riconosciuto dagli altri, da tutti gli altri, da ciascuno nei confronti di ciascun altro. E il Centro ancora vuole, pur con tutti i limiti e le difficoltà, continuare ad essere compagno di strada, per imparare assieme a riconoscere i diritti e a chiamare per nome i tanti che sulla strada vivono e arrancano: volti dell’incertezza e dell’insicurezza, della paura e del bisogno, della solitudine e dello smarrimento.
Papa Francesco sceglie i suoi collaboratori tra coloro che sono “più vicini agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti, espressione di una Chiesa lieta, col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza.” Sapere che il pontefice le ha riconosciuto queste qualità, cosa ha significato per lei?
Semplicemente essere e continuare a sentirmi parte di una Chiesa viva, in uscita, in cammino. Una Chiesa delle periferie e dell’umano, soprattutto delle periferie esistenziali che abitano dentro ciascuno di noi. Non lo sto vivendo come un riconoscimento o una “promozione”, ma come la necessità di un ulteriore momento di conversione per me, alla sequela del Cristo, sul passo degli ultimi. E sento ancora di più quella bellezza dell’amore incontenibile del Signore per la sua Chiesa e per ogni figlia e figlio di questa terra.
Il 2 ottobre farà ingresso nella Diocesi di Cerreto Sannita -Telese- S. Agata dei Goti. Diocesi incastonata in un territorio ricco di bellezze paesaggistiche, con giovani, donne e uomini solidali e laboriosi, ma anche con un tessuto produttivo in difficoltà, profondamente segnato dall’alluvione dell’ottobre scorso. Quale Chiesa sogna di realizzare?
Non sono io a sognare una mia Chiesa, né tantomeno sarò io a realizzarla. Credo che il sogno lo abbia indicato chiaramente Gesù nel Vangelo e che Papa Francesco lo stia raccontando al mondo con gesti profetici e parole vere: “Mi piace una Chiesa inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà.”
È questa la Chiesa che io sogno di abitare: una Chiesa dalle porte aperte a tutti, perché tutti abbiamo bisogno di Lei. Una Chiesa dove non si celebrano solo i riti, ma dove si vive e si celebra la vita delle donne e degli uomini, intrisa di gioie e dolori. Una Chiesa in uscita, samaritana, libera, fedele al Vangelo. Una Chiesa povera. Una Chiesa sinodale, in ascolto dello Spirito Santo.
Lei che in questi anni “ha visto vite capovolgersi per amore, ha visto il deserto fiorire nei cuori”, quale messaggio si sente di inviare agli uomini e alle donne, della sua nuova diocesi, “provati dalle intemperie della vita”?
Non voglio dare messaggi ma provare ad essere presente, ascoltare, condividere la mia vita con quelle delle sorelle e dei fratelli che vivono il territorio della mia Diocesi. Voglio farmi strumento perché sia la mia vita, i miei gesti, il mio cuore e le mie mani a parlare, ben prima delle mie parole. Camminare con loro per condividere le loro fatiche e attese, le loro speranze e i loro progetti. Accanto a loro perché le ferite diventino feritoie, per imparare a credere che la vita è sempre più forte delle ferite e che prendersi cura della vita di tutti, nessuno escluso, rivela il senso della nostra dignità.
Così, da “servo inutile” arrivo nella mia nuova casa, in questa terra spesso provata, portando con me solo la speranza che il Vangelo mi dona: “Coraggio, alzati, ti chiama”. E questo è anche il motto che ho scelto per lo stemma episcopale. È questa la parola che ogni giorno il Signore rivolge a me, mendicante d’amore come il cieco di Gerico, questa è la parola che ogni giorno ha cadenzato i miei passi in ogni incontro con i ragazzi della mia comunità e con le persone che ho avuto la gioia di incontrare lungo la mia strada.
Lei ha teso le sue mani anche verso coloro “che non condividono la sua stessa speranza cristiana, ma che si impegnano nel rendere più civile la civiltà e più umana l’umanità”. Come potrebbero essere coinvolte queste persone nella sua missione?
Spesso, molte sorelle e fratelli, pur non condividendo la nostra speranza cristiana, condividono con noi il sogno e il progetto di un’umanità nuova, illuminata dall’amore e dalla speranza, radicata nella solidarietà e nel riconoscimento dell’altro. Solo nell’incontro autentico, reciproco e sincero c’è lo spazio per una relazione profonda che pur prescindendo dalle differenze confessionali, può scoprire la profonda spiritualità di un comune desiderio d’amore e di giustizia. Penso che un territorio complesso come quello della mia Diocesi abbia bisogno di tutte le donne e gli uomini che vogliano operare insieme per la costruzione della città comune, cercando sempre, come Papa Giovanni XXIII ha insegnato, “quello che unisce e non quello che divide”. Credo molto nel sogno di don Tonino Bello che è la “convivialità delle differenze”.
Sant’Alfonso Maria de Liguori è stato vescovo della diocesi di Sant’Agata dei Goti. Cosa chiederà nelle sue preghiere a un così illustre predecessore per sostenerla nel servizio per quel popolo?
Sant’Alfonso è stato un vescovo che ha sempre scelto gli ultimi, gli umili, i poveri. Il suo sostegno mi sarà d’aiuto nel cammino, come segno costante di ciò che è essenziale: amare i poveri, amare la povertà e soprattutto Gesù Cristo. Sant’Alfonso infatti diceva: “Si perda tutto e non si perda Dio.” Senza mai dimenticare perciò che i poveri non si contano ma si abbracciano. E ci salvano.